Fuori dagli stereotipi

L’Africa è un continente gigantesco, con una popolazione – giovane – di oltre un miliardo di persone, dove sta nascendo una classe media dinamica e proiettata al futuro. Quello che serve per un cambio di passo sono stabilizzazione politica e investimenti 

L’Africa è un continente gigantesco, con una popolazione – giovane – di oltre un miliardo di persone, dove sta nascendo una classe media dinamica e proiettata al futuro. Quello che serve per un cambio di passo sono stabilizzazione politica e investimenti 

di Roberto Di Giovan Paolo

N

on è obbligatorio pensare ancora all’Africa come al continente sempre sull’orlo dell’abisso.  

Senza distogliere lo sguardo dalle disparità presenti, analizzando i dati, scopriamo 54 nazioni e un mercato potenziale di oltre un miliardo e 300 milioni di abitanti di cui il 70 percento è sotto i trent’anni di età. Con oltre mille aziende che fatturano tra i 500 milioni e il miliardo di dollari e tante piccole e medie imprese che, in trenta paesi, hanno creato una “classe media” di 300 milioni di africani.  

La stabilizzazione politica e sociale e gli investimenti (ad alta redditività) possono cambiare il volto del continente nel futuro

 

Punti di vista 

Pensando all’Africa possiamo certamente continuare a tornare sulla scia tragica della sua storia: la colonizzazione dopo lo schiavismo, la decolonizzazione e la dipendenza economica; le ricadute della “guerra fredda” e l’espansionismo economico e politico non solo degli ex paesi di riferimento della colonizzazione ma anche dei moderni paesi rampanti, come la Cina, ormai presente dappertutto, oppure la Russia che si incunea nei luoghi di crisi di rappresentanza e di diplomazia occidentale, come recentemente nel Mali. E poi la sentina di tutte le povertà, il luogo da cui scappano uomini e donne in cerca di futuro, rischiando la propria vita e quella dei loro figli pur di sfuggire a un destino amaro. Però si può vederla anche in altro modo. Un continente di 54 nazioni, che potrebbe contenere fisicamente le Americhe e l’Europa più la Cina e l’India. Un continente ancora giovane che arriverà a 2 miliardi e mezzo di abitanti nel 2050 e che i dati di prima della pandemia ci presentavano con entrate fiscali (in sistemi certo non lineari…) per 500 miliardi di dollari, ovvero 10 volte più degli aiuti allo sviluppo (poco meno di 50 miliardi di dollari in totale), e che conta anche oltre 60 miliardi di dollari di rimesse da tutto il mondo. Giustamente le grandi compagnie che guidano gli investimenti internazionali hanno da tempo iniziato a monitorare l’Africa e a ragionare sul suo futuro tanto quanto le agenzie che si occupano di sviluppo a livello diplomatico, ambientale e sociale. Ecco, guardarla da questo punto di vista può essere stimolante davvero. 

 

Sappiamo tutti che esiste una forte disparità di condizioni, che peraltro si riscontra anche nel resto del mondo, si pensi solo al continente asiatico, all’America Latina oppure ai Paesi Arabi, ma in Africa le “leve” di cambiamento ci sono e potrebbero presto essere azionate se oltre alle rimesse e alle performance economiche africane, seppure troppo “localizzate” (il 50 percento delle grandi aziende africane sono in Sud Africa), ci fosse un forte investimento privato favorito anche da accordi internazionali e da una condizione di minore incidenza dei conflitti militari e civili, retaggio di una classe dirigente affrettatasi giustamente all’indipendenza senza una storia di amministrazione alle spalle. 

 

Un Airbus A350 dell’Ethiopian Airlines. La compagnia è entrata nella Star Alliance (Lufthansa) divenendo stabilmente il terzo vettore africano.

Il reddito pro-capite va dai 270 dollari annui del Burundi ai circa 15.000 delle Seychelles. Facendo la media si arriva a circa 2.000 dollari annui, ma solo grazie ad una manciata di nazioni: il Sud Africa, ma anche il Botswana, il Gabon, la Namibia, la Guinea Equatoriale, mentre altri stati che pure hanno risorse fondamentali, come le fonti energetiche o le terre rare essenziali per la società digitale, non riescono ancora a redistribuire un reddito adeguato. Eppure, nonostante tutti i problemi anche qui, una “leva” c’è: la classe media africana, oggi di circa 300 milioni di persone (Report McKinsey & Company 2018 e 2021) e diffusa in circa 30 dei 54 Paesi africani. Possiamo certo distinguere tra essere “classe media” in Africa e nei Paesi sviluppati, ma in ogni caso stiamo parlando di un quarto della popolazione attuale del continente, che può servire da “zoccolo duro” per una crescita ed uno sviluppo nei prossimi anni, a condizione ovviamente che gli investimenti ci siano. Quando si esaminano i fondi sovrani oppure i fondi di investimento privati, infatti, la percentuale di impegno sul continente difficilmente supera l’asticella del 10 percento delle risorse investite e questo appare un po’ miope, anche dal punto di vista meramente economico, dal momento che parliamo di un mercato potenziale di più di 1 miliardo e 400 milioni di consumatori sotto i trenta anni nel 2050.  

 

Il primo passo è investire

Ecco allora un primo passo da fare scegliendo l’ottimismo della crescita di un continente che può fornire manodopera giovane e vogliosa di crescere e formarsi. E sia chiaro, non stiamo parlando solo di aiuto allo sviluppo di tipo caritatevole od umanitario, che certamente non può mancare, ma di investimenti veri, fatti in chiave di corretto profitto e di risultati concreti nell’economia reale e finanziaria. Contrariamente al sentire comune, in Africa, non siamo all’anno zero dal punto di vista imprenditoriale: nel continente esistono (sempre con le disparità espresse sopra, ovviamente) 400 compagnie che hanno un fatturato sopra il miliardo di dollari e almeno 700 sopra i 500 milioni di dollari. Si tratta di grandi aziende presenti su basi regionali o panafricane, di cui oltre metà sono del tutto africane in quanto a proprietà e a cui va aggiunto un quasi 20 percento di aziende di Stato, a dimostrazione che lo spazio per un’imprenditorialità post coloniale esiste e supera gli stereotipi. Quello che colpisce di queste imprese è il tasso di crescita: prendiamo per esempio l’Ethiopian Airlines, che è passata, in dieci anni e prima del nuovo conflitto Etiopia-Eritrea, da 3 a quasi 9 milioni di passeggeri con oltre 2 miliardi e 700 milioni di fatturato, ed è entrata nella Star Alliance (Lufthansa) divenendo stabilmente il terzo vettore africano dopo Egypt Air e South African Airways. Oppure Mtn, la compagnia di collegamenti telefonici e digitali basata in Sud Africa, che ha raggiunto gli oltre 270 milioni di clienti in 22 nazioni africane con tassi di crescita e di redditività pari ad altre OTT (Over The Top) in tutto il resto del mondo, e forse in termini di resa economica ai soci, anche meglio.

 

Sono esempi che evidenziano alcune condizioni di base necessarie per crescere. Che per investire servano infrastrutture, collegamenti, stabilità politica ed amministrativa è chiaro sia alle banche internazionali e locali dei Fondi Monetari sia alle Istituzioni. Non è un caso che l’Unione europea abbia approntato un Piano di  fondi europei per 3,3 miliardi di euro che hanno lo scopo di mobilitare 44 miliardi di investimenti privati in zone e regioni africane “meno attraenti” per gli investimenti, con l’obiettivo della riduzione della povertà, ma anche della stabilizzazione sociale e politico-amministrativa, attraverso investimenti per lavoro, la costruzione di piccole e medie imprese (con regole severe sui diritti umani e dei lavoratori e sulla trasparenza fiscale) che partecipino alla lotta al cambiamento climatico (riserva di oltre il 28 percento dell’impegno economico per azioni coerenti con il Trattato di Parigi). Si tratta di una combinazione virtuosa di sovvenzioni, prestiti e garanzie finanziarie pubbliche del valore appunto di 3,3 miliardi di euro, che fanno da “leva” agli ipotizzati 44 miliardi di euro (tanto quanto tutti gli aiuti allo sviluppo di tutti-non solo Ue-per l’intera Africa, che rimangono in auge ovviamente e per fortuna) per incoraggiare lavoro, crescita e stabilità, affrontando così almeno alcune delle cause economiche profonde della migrazione. Ed è importante come questo Piano europeo concordi nelle proprie linee guida con quelle della Banca africana di sviluppo (AFDB), che mira da anni a creare le condizioni per l’arrivo di investimenti fidando sulla valenza economica e non solo di assistenza, sociale o morale, che certamente sono un valore in sé ma poi non sempre garantiscono la continuità degli impegni. 

Giovane imprenditrice in un ufficio di Johannesburg, Sudafrica.

 

Un cambio di passo culturale 

C’è difatti bisogno, in relazione al continente africano, anche di un cambio di passo culturale. Non si tratta di dimenticare le colpe storiche di noi europei e occidentali, ma anzi di rimediare cogliendo delle grandi opportunità proprio in questa fase di transizione digitale ed ecologica. Paradossalmente il luogo di nascita della prima “Sapiens”, Lucy, è anche un luogo strategico di queste transizioni. L’Africa non è solo un luogo dolente dell’umanità ma il luogo di ricerca di fonti energetiche vecchie e nuove e di materiali fondamentali per l’innovazione tecnologica, oltre che un polmone verde. Stabilizzare il continente politicamente, renderlo un luogo di contatto multilaterale non è solo una necessità politica antica ma la forma moderna per garantire la crescita e lo sviluppo economico che qui potrebbe ancora viaggiare con numeri ormai impensabili in Paesi sviluppati, ma senza danni per l’ambiente o la società, modificando e migliorando anche il senso dell’impegno di capitali e dell’impresa. È davvero una bella prospettiva quella di avere davanti un futuro libero da millenni di ingombri e poterlo costruire negli anni a venire. La giovane Africa dei discendenti di Lucy, che pensa e agisce positivo, in fondo se lo aspetta e se lo merita.