La transizione non è un pranzo di gala

Non saranno lo slancio fideistico o le paure millenaristiche a consentirci di raggiungere obiettivi difficili, ma la concretezza e il senso economico delle scelte. Spetta al sistema energetico e industriale gestire la trasformazione, senza traiettorie definite per legge

Non saranno lo slancio fideistico o le paure millenaristiche a consentirci di raggiungere obiettivi difficili, ma la concretezza e il senso economico delle scelte. Spetta al sistema energetico e industriale gestire la trasformazione, senza traiettorie definite per legge

di Francesco Gattei

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ella prima metà di dicembre i governi mondiali avranno di nuovo di fronte l’opportunità di disegnare un piano realistico di riduzione delle emissioni. Le COP hanno una storia di grandi annunci che trovano tuttavia uno scarso riflesso in azioni. Tralasciando le prime venti conferenze delle parti, in cui il difficile negoziato degli impegni per la riduzione delle emissioni tra Nord e Sud del mondo aveva portato alla autoesclusione di India, Cina e Stati Uniti dagli accordi (a proposito mai una COP è stata tenuta sul suolo americano), il vero cronometro dell’azione di contenimento delle emissioni mondiali scatta con l’Accordo di Parigi nel 2015 (COP21).

 

 

I limiti degli accordi di Parigi

Alla presenza di 25.000 delegati e 3.000 giornalisti a Parigi si discusse di come salvare il pianeta trovando una soluzione brillante per sbloccare l’impasse che aveva penalizzato nei decenni precedenti il raggiungimento di un accordo globale.

 

La soluzione prevedeva di trasformare il negoziato in una serie di obiettivi auto-dichiarati, da monitorare periodicamente e da intensificare con il progredire degli anni. Ogni paese, in sintesi, si impegnava a diverse velocità a raggiungere un traguardo comune.

 

Ma la soluzione “tecnica” che aveva creato il meccanismo dei cosiddetti Nationally Determined Contributions (cioè gli impegni dei singoli Governi sul clima) presentava gli stessi limiti di esecuzione che avevamo riscontrato anche nei decenni precedenti:

- gli impegni non sono vincolanti e quindi il livello di performance risultava effettivamente condizionato dalle soluzioni tecniche a disposizione e dal costo di transizione;

- l’impatto reputazionale del mancato rispetto dell’accordo poteva essere edulcorato dalla prospettiva che altri paesi si sarebbero trovati nelle stesse condizioni di difficoltà.

 

Inoltre, il peggioramento del contesto di collaborazione (con una riduzione dello spirito positivo della prima fase della globalizzazione) e del quadro macroeconomico avrebbero reso evidenti due condizioni volutamente trascurate nell’annuncio iniziale: la necessità di perseguire contestualmente alla transizione anche la sostenibilità economica e la sicurezza geopolitica. Il grado di evoluzione del piano di transizione avrebbe avuto, infatti, conseguenze sulla competitività delle imprese nazionali e sulla dipendenza da altri paesi e per questo doveva essere bilanciato anche da tali fattori. Come in una gara di mezzofondo, il treno della transizione non aveva solo l’acceleratore ma scontava brusche frenate e tatticismi.

 

Dopo 8 anni dalla sua approvazione, è oramai evidente che l’escamotage degli NDC è risultato uno strumento di grande efficacia nel favorire un accordo globale, ma non altrettanto idoneo a risolvere l’eccezionale complessità del problema.

 

 

Cosa incide sulle emissioni, l’identità di Kaya

Una complessità che è espressa dall’identità di Kaya, la formula che correla la crescita delle emissioni a numerose variabili:

- alla crescita della popolazione;

- alla generazione di ricchezza e quindi alla variazione del reddito pro-capite;

- a quanta energia si consuma nello sviluppo economico cioè alla variazione della intensità energetica sul Pil;

- a quante emissioni derivano dalla produzione di energia e quindi alla variazione della intensità carbonica dei sistemi energetici.

 

All'incrocio fra Wall Street e Broadway, New York 

 

In altre parole, contenere le emissioni assolute vuol dire aumentare rapidamente il peso energetico delle tecnologie low carbon sul Pil. Ma tale processo deve avvenire più rapidamente della crescita del benessere economico e di quella della popolazione mondiale.

E farlo inoltre in maniera sostenibile dal punto di vista economico e Geopolitico, altrimenti il modello di trasformazione si arenerebbe (questo è un vincolo che Kaya non evidenzia).

 

Facendo un rapido calcolo, si evidenzia la quasi impossibilità della sfida nell’arco delle prossime decadi per l’impulso inerziale delle due variabili più rilevanti; la popolazione mondiale cresce infatti ogni anno di 80 milioni di persone (un tasso dello 0,9 percento) che si concentrano nei paesi in via di sviluppo (dove è maggiore la prospettiva di crescita del Pil) e dove il mix energetico è più sporco (alta intensità energetica sul Pil e carbonica sulle fonti e sui consumi). Gli spazi di ottimizzazione sono limitati poiché la scarsa capacità di spesa in quei paesi riduce le possibilità di cambiamenti repentini e costosi del mix.

 

Il Pil pro-capite, a livello mondiale, cresce ancora più rapidamente della popolazione (2 percento circa all’anno), anche se con un trend inferiore a quello del decennio passato dominato dal boom cinese (tra il 2003-2008 il Pil pro-capite crebbe del 3 percento all’anno). In questo decennio l’economia cinese sta rallentando ma nei prossimi anni potremmo assistere al decollo del gigante indiano, che darebbe nuovo impulso al Pil pro-capite.

 

Per dare una idea, dalla conferenza di Parigi del 2015 ad oggi la crescita del 7 percento della popolazione e del 13 percento del reddito pro-capite sono i fattori positivi di incremento delle emissioni che rappresentano la montagna da scalare.

 

Ma a che velocità si può cambiare, invece di ridurre, il consumo energetico e modificare il mix per contenere gli aumenti legati alla demografia e allo sviluppo?

 

La storia evidenzia su questo aspetto un’inerzia significativa: in primis la dinamica di creazione del reddito attraverso il terziario e il minor uso di energia nei restanti processi (di consumo, industriali ed agricoli) è un programma lento che procede ad un tasso medio annuo dello 0,3 percento.

 

 

 

Negli ultimi 7 anni ha registrato un miglioramento complessivo del solo 2 percento. Tale processo richiede investimenti in nuove macchine e capitale immobilizzato spesso di grandi dimensioni, non solo per le industrie ma anche a livello di usi finali (l’analogia tra rapidità della transizione energetica e lo sviluppo esponenziale della telefonia mobile è semplicemente ridicolo).

 

Se spostare il Pil tra i settori e ridurre il consumo energetico per unità di reddito è lento, appena più rapida risulta la riduzione della intensità emissiva del mix energetico (allo 0,6 percento annuo). Tale riduzione richiede una sostituzione massiva del carbone con gas e rinnovabili e una maggiore diffusione del nucleare.

 

Ma sulle rinnovabili pesa anche la loro bassa incidenza a livello di contributo sull’energia globale: solare ed eolico, infatti, hanno ancora un ruolo limitato nella generazione di elettricità, che a sua volta contribuisce solo per il 20 percento ai consumi finali di energia. E allo stesso tempo tali tecnologie assicurano elettricità in maniera intermittente, con valori di utilizzo pari al 15-25 percento della loro capacità nominale, consentendoci di scalare la montagna ad un passo assolutamente troppo lento, incomparabile con il procedere delle altre variabili.

 

 

Per questo, il beneficio, da Parigi ad oggi, del differente mix è contenuto: pari al 4 percento in totale (già di per sé il minor contributo alla crescita della Cina determina un miglioramento del footprint emissivo). Insomma, efficienza energetica e riduzione delle emissioni nel mix coprono a malapena l’incremento demografico. Lasciando la crescita delle emissioni di fatto determinata dalla variazione del Pil pro-capite.

 

Pertanto, non c’è da sorprendersi se, a parte il 2020, (tracollo del Pil mondiale di riduzione del peso del petrolio nel mix per effetto dei lockdown con caduta delle emissioni del 5 percento) l’equazione di Kaya ha confermato un trend consistente.

 

Dai 34,7 miliardi di tonnellate di CO2 del 2015 si è saliti a 36,8 miliardi nel 2022 e un nuovo record è atteso quest’anno, con valori che, con la forte crescita dei consumi petroliferi, supereranno ampiamente i 37 miliardi.

 

 

Proclami e realtà

A fronte di un’evidente inefficacia del piano annunciato a Parigi si lanciano tuttavia obiettivi sempre più sfidanti, si preannunciano le prossime decadenze dei combustibili fossili e si minacciano bandi alla produzione di fonti o motori tradizionali.

 

Ritornando a Kaya, stiamo cercando di accelerare la decarbonizzazione del mix energetico attraverso i proclami ma, nei fatti, siamo in grado di muovere solo le variabili che hanno un impatto meno rilevante sull’equazione. Molto più probabilmente stiamo creando un gap tra bisogni e disponibilità.

 

Come allora disegnare una traiettoria concreta?

 

Il primo elemento da evidenziare è che il processo di trasformazione è lento e costoso. La transizione non è un pranzo di gala e non esiste un mondo nuovo che si può palesare in pochi anni. Il vincolo non è la produzione di energia ma la modifica dei consumi finali, gli usi industriali e ricreare filiere nuove che sostituiscano modelli stratificati in un paio di secoli.

 

Risulta evidente che bandire petrolio e gas o carbone con ultimatum sempre più allarmanti ha un effetto boomerang a danno della stessa trasformazione che si vuole promuovere aumentando i costi di acciaio, e altri materiali, come plastiche e vetro, che sono alla base delle pale eoliche e dei pannelli. Oltre a quelli della logistica e delle attività minerarie essenziali. Come conseguenza delle pressioni inflative salgono, inoltre, i tassi di interesse che impattano sul costo del capitale soprattutto nei nuovi settori. Un semplice annuncio di eventi futuri ha un effetto destabilizzante nell’immediato, tagliando risorse e investimenti che darebbero un contributo essenziale alla transizione.

Va ricordato poi che l’esclusione a prescindere di alcune opzioni tecnologiche (ad esempio spingendo oltremisura la rilevanza delle fonti elettriche e rinnovabili, escludendo il nucleare o il gas) è un ulteriore fattore di rallentamento del processo perché concentra le disponibilità economiche su sezioni limitate (e poco incisive) del piano di trasformazione.

 

Un ruolo chiave dovrà essere giocato dalla Carbon Capture che assicura la vera soluzione per decarbonizzare gran parte delle attività industriali richieste per produrre le nuove fonti energetiche e le reti. Inoltre, l’offset naturale (la cattura della CO2 tramite le piante) è lo strumento più scalabile ed economico per “comprare il tempo necessario” affinché si possa realizzare la trasformazione con una ragionevole sostenibilità economica.

 

In conclusione, non saranno lo slancio fideistico o le paure millenaristiche che ci consentiranno di raggiungere obiettivi difficili, ma la concretezza e il senso economico delle scelte. Chissà se prima o poi una COP non raggiungerà la conclusione che non esistono colpevoli o untori, ma che le emissioni sono una esternalità di quella magia positiva che si chiama sviluppo umano. E che la transizione potrà essere gestita solo riconoscendo al sistema industriale ed energetico il pieno potenziale di trasformazione senza definire ex lege la sua traiettoria e le modalità di esecuzione.