Gli USA tornano al nord

Dopo anni di oscillazioni strategiche, Washington rilancia la sua presenza polare con nuove iniziative diplomatiche e militari. Ma la sfida con Russia e Cina rischia di trasformare l’Artico in un nuovo terreno di confronto globale
Dopo anni di oscillazioni strategiche, Washington rilancia la sua presenza polare con nuove iniziative diplomatiche e militari. Ma la sfida con Russia e Cina rischia di trasformare l’Artico in un nuovo terreno di confronto globale
di Agata Lavorio

I

’m back – sembrano aver detto, ancora una volta, gli Stati Uniti. Con l’inclusione dell’Artico nella National Security Strategy, la nomina del primo ambasciatore americano per l’Artico e un’iniziativa congiunta con Canada e Finlandia per (si mormora) il varo di 70 o 90 rompighiaccio nei prossimi dieci anni, il mandato Biden-Harris aveva d’un tratto recuperato le redini di una rinascita polare che si trascinava, tra tira e molla, da anni. Le recenti dichiarazioni del presidente in carica – “Abbiamo bisogno della Groenlandia per motivi di sicurezza nazionale e internazionale” – interpretano, in chiave trumpiana, le tipiche esplosioni d'attenzione che da decenni caratterizzano la postura artica di Washington. Gli Stati Uniti sono davvero tornati al nord come il Terminator di Jonathan Mostow – brusco, inaspettato, impassibile, tra i detriti di un mondo che ha preso fuoco. 

 

 

Dalla War on Terror all’Artico

“Entrando” in Artico con gli ultimi respiri della war on terror, l’uscente amministrazione Bush pubblicò nel gennaio 2009 la prima strategia artica, la direttiva di sicurezza nazionale NSPD-66 (alias HSPD-25), poco appetibile per una platea di non addetti ai lavori. Il documento analizzava la regione attraverso le lenti della sicurezza nazionale: temi come la difesa missilistica, l’early warning, le minacce terroristiche, la libertà di navigazione e il cambiamento climatico hanno da allora continuato a segnare la strategia americana, indipendentemente dagli orientamenti politici. Cambiano gli accenti: alcune presidenze hanno insistito sulla cooperazione multilaterale (Obama, Biden), altre hanno adottato un tono più assertivo (Trump).

 

Ma un punto almeno è chiaro: con il riscaldamento globale che erode la barriera naturale di Canada e Alaska, l’Artico non è più una lontana periferia, bensì una nuova frontiera della sicurezza degli Stati Uniti, nazione abituata alla fortuna di essere protetta da una gigantesca frontiera strategica. Da un lato, il risvolto negativo degli effetti del cambiamento climatico nella regione artica e la crescente tensione nei rapporti USA-Russia hanno con forza stimolato la risposta della tradizionale difesa nazionale, che anche oggi conferma l’esistenza di minacce in Artico; dall’altro lato, le opportunità, sempre derivanti dal cambiamento climatico e ripetutamente sottolineate in tutte le strategie artiche, restano confuse, segnale di un rapporto marcato da una forte connotazione militare e da una ridotta valorizzazione civile.

 

L’ultimo mandato democratico aveva riacceso le speranze di una postura artica dall’afflato liberale, in grado di cooptare alleati e partner in un multilateralismo in cui gli Stati Uniti sarebbero rimasti primus inter pares. Infatti, il riconoscimento, nero su bianco, degli effetti del cambiamento climatico su tutto il perimetro delle politiche federali aveva permesso di gettare le basi di una politica artica più strutturata. Il cambio di rotta era stato inaugurato con dichiarazioni di alto livello (per il Segretario alla Difesa Austin, il cambiamento climatico è “minaccia esistenziale”) e con la tornata di ordini esecutivi del gennaio 2021. A onor del vero, anche la prima politica artica di Trump, pur con vere e proprie perifrasi, si era dovuta confrontare con il cambiamento climatico: ma questo era risultato in un approccio frammentario, inquinato da un clima di ostilità tra mondo politico e militare.

 

 

Tra containment e multilateralismo

Russia e Cina si confermano in ogni caso i due attori attorno ai quali continuano a ruotare le maggiori apprensioni americane. La Russia resta la minaccia tradizionale: nonostante il trasferimento di quasi il 50 percento delle forze stazionate nell’Artico russo sul fronte ucraino, la “strategia dei bastioni” – una zona A2/AD che si estende dal GIUK gap alle acque interne, concentrata soprattutto nella penisola di Kola – rappresenta la vera sfida militare in Artico. Oltretutto Mosca è la minaccia “più diretta e significativa” alla NATO, come dichiarato nel Summit di Madrid nel 2022: l’entrata di Svezia e Finlandia nell’alleanza ha infatti allargato il confine tra NATO e Russia di oltre 1300 km, rendendo ora la militarizzazione dell’Artico russo una questione ben più grave rispetto alle insofferenze americane sui pedaggi e le richieste per le navi che attraversano la Northern Sea Route. 

 

 

Le tensioni tra Stati Uniti e Danimarca sono aumentate, dopo che il presidente americano Donald Trump ha più volte espresso il desiderio di acquisire la Groelandia. In foto, le strade innevate di Nuuk, la capitale della Groenlandia, che conta 18.326 abitanti

 

Il passaggio a una strategia di denial e la riattivazione di un “Fianco Nord” della NATO segnano perciò un importante momento di inclusione degli Stati Uniti lungo la linea circumpolare: in questi mesi Washington dovrà gestire il delicato equilibrio tra presenza boots on the ground nel Nord Europa e la capacità di proiezione oltreoceano in caso di crisi. Nel 2018 è stata riattivata la Seconda Flotta americana, indice di attenzione verso il settore nordatlantico e artico; negli stessi anni sono state pubblicate, per la prima volta, le strategie di tutti i service branch delle forze armate americane. Tra il 2020 e il 2021 due squadroni di F-35A sono stati dispiegati alla base di Eielson in Alaska e la Finlandia acquisterà 64 unità nei prossimi anni. Nel frattempo, le esercitazioni militari in condizioni estreme sono state notevolmente intensificate, anche attraverso l’addestramento congiunto con alleati norvegesi e finlandesi.

 

L’influenza cinese nell’Artico, secondo Washington, cresce invece per mezzo di una strategia di soft power che punta alla partecipazione alla governance regionale, agli investimenti nei materiali critici e alla ricerca scientifica sospettata di dual-use. Per questo motivo, gli Stati Uniti hanno respinto la definizione adottata da Pechino nel 2018 di “Near Arctic State”. Sotto questa luce si possono leggere le recenti dichiarazioni in merito alla Groenlandia e a possibili referendum – dichiarazioni atte ad arginare (nei fatti o nelle parole, con quali mezzi si vedrà) l’influenza cinese nel mercato dei materiali critici e quindi possibile terreno di rinforzo della forward defense di Washington. Non è detto, tuttavia, che la rinnovata attenzione americana sul fronte artico sia destinata a durare. Il “fronte nord” interessa da sempre i policy-makers americani a fasi alterne, tra improvvisi scoppi di attenzione e altrettanto rapidi voltafaccia verso altri teatri. Basti pensare ai fondi del bilancio federale del 2018 destinati all’ampliamento della flotta di rompighiaccio, poi dirottati nel 2020 verso la costruzione del “muro” con il Messico.

 

D’altronde era stato proprio un bollettino pubblicato dall’US Geological Survey nel 2008 a catalizzare una vivace, improvvisa, e spesso superficiale attenzione nei confronti delle potenzialità artiche, soprattutto fonti fossili. A lungo sventolato come la bandiera di accesso all’Artico, il bollettino si è poi rivelato una previsione troppo ottimista. Il TAPS (Trans Alaska Pipeline System), oleodotto che ancora oggi trasporta il greggio dal North Slope attraverso 800 km di tundra e montagne fino al porto di Valdez nel sud dell’Alaska, sta infatti sperimentando una decrescita costante dei volumi di greggio movimentati: si è passati dai 2 milioni di barili al giorno (bpd) degli anni Ottanta e Novanta ai 500.000 bpd di oggi, e il trend non accenna a diminuire, seppur con alti e bassi stagionali e annuali. Ma è pur vero che il rapporto con il settore degli idrocarburi nazionali è per Washington un continuo tira e molla.

 

Nel settembre 2023 le sette concessioni di trivellazione nel North Slope approvate dall’amministrazione Trump erano state bloccate dai democratici (e poi ri-approvate da Trump), mentre si discuteva il controverso Willow Project di Biden, in mano a ConocoPhillips, che avrebbe portato a emissioni di carbonio pari al 4 percento dell’impronta carbonica americana, secondo le stime del Carnegie Endownment. È ancor più fresco l’annuncio della fine delle trattative, durate dieci anni, per la realizzazione dell’Alaska LNG Project. Con il beneplacito di Trump, il piano da 44 miliardi di dollari dovrebbe condurre alla costruzione di un gasdotto dal North Slope a Nikiski, da dove il gas liquefatto prenderebbe il largo verso i mercati orientali. Nonostante un certo entusiasmo da parte dei governi asiatici, il progetto non sarà affatto semplice da realizzare. I lunghi tempi di attesa che si prospettano da un progetto così gargantuesco si scontreranno con la fine della presidenza Trump (e del braccio di ferro delle tariffe imposte ai partner che stanno cooptando gli stati nel mercato energetico americano), gli obiettivi di net-carbon zero degli stati coinvolti e le fluttuazioni economiche da qui al 2030 (almeno).

 

 

Aspettative deluse

È bene infatti ricordare che lo scenario alaskano non ha risposto finora alle rosee aspettative legate al “nuovo Artico”: le aziende americane e internazionali si sono da sempre scontrate con le zone grigie del diritto internazionale nonché con gli alti costi di realizzazione dovuti alle condizioni ambientali estreme. Sono peraltro numerose le energy companies, anche europee, fuggite in questi anni dall’Alaska. Nell’ipotesi di eventi catastrofici nella regione, naturali e non, la Guardia costiera americana dovrebbe percorrere dai mille ai duemila chilometri (via mare o aria) per raggiungere obiettivi a nord di Nome, il tutto complicato da condizioni metereologiche estreme e con la possibilità di affidarsi ad una sola rompighiaccio americana in zona – la media Healy, più volte incapacitata a causa di incidenti a bordo.

 

L’inflazione e i crescenti costi delle materie prime hanno infatti portato a due significativi dietrofront: il progetto di ampliamento del porto di Nome – unico porto di acque profonde che potrebbe consentire un reale avvio del commercio artico – è stato cancellato nell’ottobre dello scorso anno. Mentre con due sole rompighiaccio attive, di cui una (la pesante Polar Star) impegnata anche in missioni in Antartide, gli Stati Uniti potrebbero non disporre di alcun mezzo in caso di emergenza nelle acque polari. Nel 2024 questo gap è stato aggirato mediante la stipula dell’Icebreaker Collaboration Effort, dal significativo acronimo di ICE Pact, siglato con Finlandia e Canada per impegnarsi nella costruzione, a sforzo congiunto, di almeno nove rompighiaccio nei prossimi (ma quanti?) anni. 

 

Gli investimenti di Washington finora si concentrano su dimensioni selezionate, mirate a massimizzare l’interesse nazionale senza tuttavia impegnare nelle politiche artiche risorse che vadano al di là dello stretto necessario, soprattutto in tempi di moltiplicazione delle minacce a livello globale e di contenimento di bilancio. La strategia artica americana di oggi, nel suo piccolo, ricorda i prodromi di una versione light del containment, con la quale si vorrebbe garantire una presenza parsimoniosa, ma responsiva, in Artico. In questo contesto, il ruolo di coordinamento affidato all’ambasciatore artico Michael Sfraga risulterà cruciale per la cooperazione con gli alleati europei, esperti nell’ambiente artico, geograficamente più esposti e chiamati fin da subito ad “agire” sul proprio scenario (militare, politico, commerciale). Alleati che si affermano come imprescindibili, mentre gli Stati Uniti, ripiegando in particolar modo sul proprio Artico, concentrano impegno militare e progetti di sviluppo energetico nel quadro di una strategia che ancora una volta evidenzia la tensione tra impegno condiviso e ritiro interno.