L’era ice economy

L’Area artica è diventata uno snodo strategico per l’energia, la tecnologia e il commercio. Le sue risorse, dagli idrocarburi ai minerali critici, alla pesca, sono ora al centro della competizione internazionale
L’Area artica è diventata uno snodo strategico per l’energia, la tecnologia e il commercio. Le sue risorse, dagli idrocarburi ai minerali critici, alla pesca, sono ora al centro della competizione internazionale
di Roberto Di Giovan Paolo

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otremmo chiamarla “ice economy”. Non è una novità, semmai una conferma: le regioni polari stanno tornando al centro delle dinamiche geopolitiche ed economiche globali. Già nel 2019, l’amministrazione Trump aveva avanzato l’idea di acquistare la Groenlandia, segnalando un rinnovato interesse strategico per l’Artico. Oggi, le manovre economiche e militari nell’Artico e in Antartide riflettono un’evoluzione del contesto internazionale, amplificata dai cambiamenti climatici e dall’accesso a nuove risorse. A rendere queste distese ghiacciate ancora più rilevanti sono fattori emergenti: la presenza di minerali critici, scarsi in gran parte del mondo, e la possibilità di sfruttare il clima rigido per ospitare infrastrutture digitali ad alta intensità energetica. Data center avanzati e sistemi di calcolo per l’intelligenza artificiale necessitano di ambienti naturalmente freddi e abbondanza di acqua per il raffreddamento, rendendo le regioni polari un’opzione sempre più considerata. In questo scenario, l’Artico e l’Antartide non sono più solo territori remoti, ma snodi strategici per le nuove frontiere dell’energia, della tecnologia e della competizione globale.

 

 

Artico e Antartico, la governance

L’Antartico dal punto di vista giuridico non è assoggettato alla sovranità di alcuno Stato. Nel 1959, infatti, il trattato di Washington ha bloccato sul nascere le rivendicazioni nazionali e lo ha trasformato in un grande laboratorio scientifico internazionale. Da 12 che erano i Paesi primi firmatari, sono diventati oltre 50. L’Italia, per fare un esempio concreto, nel 1987 è diventato un membro consultivo del Consiglio Antartico e tiene ogni anno missioni che coinvolgono oltre 300 esperti e scienziati (CNR, ENEA, Università) su due basi logistiche: la stazione Mario Zucchelli e la Stazione Concordia (assieme alla Francia). Lo stesso (a seconda dei mezzi economici e strutturali disponibili) fanno almeno 44 degli altri Stati presenti. Il trattato di Washington e la lunga presenza di basi scientifiche e di collaborazione tra comunità scientifiche hanno sin dall’inizio messo un freno alle dispute territoriali, registrate precedentemente, soprattutto tra Paesi confinanti come Argentina, Australia, Cile e Nuova Zelanda, e Paesi che avevano partecipato alle esplorazioni come Francia, Gran Bretagna e Norvegia. Il trattato prevede, inoltre, su una larga fetta di territorio ghiacciato il divieto di test bellici, sfruttamento economico, estrazione di risorse del sottosuolo.

 

 

Grazie alla ricchezza delle risorse ittiche e alla necessità di flotte altamente tecnologiche per sostenere la filiera industriale, Inghilterra, Islanda e Norvegia si trovano a competere con i nuovi pescherecci cinesi, giunti nella regione seguendo quelle che ufficialmente sono “navi di ricerca”, ma che in realtà sono rompighiaccio multiuso. In foto, una barca da pesca nella Baia di Disko, in Groenlandia

 

 

A differenza dell’Antartico, l’Artico non è soggetto a un trattato internazionale che ne definisca lo status. L’area comprende territori emersi, acque territoriali e vaste porzioni di alto mare. Tutte le terre emerse e le acque territoriali appartengono a uno dei cinque stati rivieraschi della regione: Canada, Norvegia, Russia, Danimarca (tramite la Groenlandia) e Stati Uniti. La Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS) stabilisce che questi cinque paesi esercitano diritti sovrani sulle risorse naturali entro le rispettive Zone Economiche Esclusive (ZEE), che si estendono fino a 200 miglia nautiche (circa 370 km) dalle loro coste. Al di là di questo limite, le acque dell’Oceano Artico rientrano nella categoria di alto mare, dove vige il principio della libertà di navigazione e sfruttamento regolamentato delle risorse.

In questo contesto, la crescente competizione per il controllo delle risorse e delle rotte di navigazione rende la governance dell’Artico un tema sempre più centrale nelle dinamiche geopolitiche globali.

 

 

Il Consiglio Artico

Nel 1996, con la Dichiarazione di Ottawa, fu creato un forum intergovernativo, chiamato Consiglio Artico, per promuovere la cooperazione, il coordinamento e l’interazione tra gli Stati artici, con il coinvolgimento delle comunità indigene. L’obiettivo del Consiglio è garantire alla regione artica “uno sviluppo sostenibile ambientale, sociale ed economico”. Il Consiglio comprendeva originariamente otto Stati, Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Russia, Stati Uniti d’America e Svezia, a cui furono poi associati in forme diverse altri Stati importanti nello scacchiere politico diplomatico. I membri osservatori permanenti sono Cina, Corea del Sud, Giappone, India, Italia, Singapore, Svizzera, Francia, Germania, Paesi Bassi, Polonia, Regno Unito e Spagna. Può sembrare strano il ruolo dell’Italia a “membro osservatore permanente” già dal 2013, ma al nostro Paese è affidato il mantenimento nelle isole Svalbard della Base artica Dirigibile Italia e della Amundsen-Nobile Climate Change Tower.

 

Il Consiglio Artico svolge una connessione politico diplomatica che va molto al di là del confronto scientifico che abbiamo visto nell’Antartico. Tanto più che parliamo del possibile sfruttamento di un luogo dove, secondo calcoli diversi e di diversa fonte, ci sono tesori nascosti: il servizio geologico USA dice 90 miliardi di barili di petrolio e 44 miliardi di barili di gas liquefatto oltre a 1000 miliardi di metri cubi di gas naturale. Il servizio scientifico corrispondente della Russia pensa anche qualcosa in più (forse il 25 percento dell’intero ammontare mondiale?). Già oggi la Russia dalle sue coste artiche, presidiate da oltre 50 basi militari, produce l’11 percento del suo Prodotto nazionale lordo e oltre il 22 percento dell’export energetico (dati pre-guerra ucraina). Tutto questo senza considerare la forte presenza di minerali critici, che la Russia ha in casa nella penisola di Kola, ma che soprattutto sembrano essere presenti in Groenlandia. In particolare, secondo l’US Geological Survey, la Groenlandia, da sola, avrebbe riserve di Terre rare stimate in 1,5 milioni di tonnellate, pari quasi alle riserve degli interi Stati Uniti, che ammontano a 1,8 milioni di tonnellate.

 

 

A differenza dell’Antartico, l’Artico non è soggetto a un trattato internazionale che ne definisca lo status. Tutte le terre emerse e le acque territoriali appartengono a uno dei cinque stati rivieraschi della regione: Canada, Norvegia, Russia, Danimarca (tramite la Groenlandia) e Stati Uniti. In foto, Iluissat, città costiera della Groenlandia

 

 

Le nuove rotte

Accanto all’interesse per i minerali critici, il cambiamento climatico sta ridefinendo rapidamente gli equilibri dell’Artico. Il progressivo scioglimento dei ghiacciai, la frammentazione di iceberg alla deriva e l’estensione sempre più ridotta del ghiaccio marino sono fenomeni ormai quotidiani a quelle latitudini. Questo scenario solleva interrogativi sul futuro della regione: meno ghiaccio significherà più mesi di navigazione senza il rischio di iceberg, una prospettiva tutt’altro che positiva per il clima, ma potenzialmente vantaggiosa per chi da tempo guarda all’Artico come a una nuova via commerciale.  Secondo molti scienziati, entro il 2040 – e forse già nei prossimi 15 anni – le tre rotte artiche esistenti, il Passaggio a Nord-Ovest, la Rotta del Mare del Nord e la Rotta Transpolare, potrebbero diventare competitive rispetto al Canale di Suez per determinate categorie di merci. Un cambiamento che ridefinirebbe le dinamiche del commercio globale, riducendo tempi di navigazione e costi per alcuni flussi commerciali, ma con implicazioni geopolitiche e ambientali ancora tutte da valutare.

 

 

Ritorna la “guerra del merluzzo”?

Attualmente, la situazione nell’Artico è in una fase di stallo, e paradossalmente l’unico “conflitto” in corso riguarda un’attività antica quanto l’umanità stessa: la pesca. Grazie alla ricchezza delle risorse ittiche e alla necessità di flotte altamente tecnologiche per sostenere la filiera industriale, Inghilterra, Islanda e Norvegia si trovano a competere con i nuovi pescherecci cinesi, giunti nella regione seguendo quelle che ufficialmente sono “navi di ricerca”, ma che in realtà sono rompighiaccio multiuso. Questi guidano le flotte cinesi alla ricerca di banchi di pesce indispensabili per alimentare una catena produttiva cruciale per un Paese da un miliardo e quattrocento milioni di abitanti. Nel frattempo, Regno Unito e Islanda adottano un atteggiamento isolazionista, difendendo le 200 miglia nautiche della loro Zona Economica Esclusiva (ZEE). Può sembrare una disputa marginale, ma i precedenti storici dimostrano il contrario: l’Islanda ha combattuto ben tre “guerre del merluzzo” (1958-61, 1972-73 e 1975-76) contro la Royal Navy britannica, riuscendo infine a far riconoscere il proprio diritto alla ZEE attraverso la Convenzione di Montego Bay. Non si trattò di un semplice scontro diplomatico: vi furono sabotaggi di navi e reti da pesca, nonché tensioni all’interno della NATO. Oggi, con l’Artico sempre più al centro degli equilibri geopolitici e la crescente competizione per risorse come terre rare e superconduttori, anche la presenza di un banco di merluzzi può trasformarsi in una questione strategica di primo piano.