
Nel momento più basso potrà la COP 30 delle Nazioni Unite riprendersi dal “tonfo” dell’anno passato a Baku, dove il numero dei funzionari presenti era quasi dimezzato e quello dei leader mondiali non appropriato a una iniziativa che per anni, dall’Accordo trovato a Parigi nel 2015, era divenuto un centro focale e mediatico del mondo? Anche dopo l’addio di Trump, che ha abbandonato con un ordine esecutivo il Trattato di Parigi 2015 ma non il programma quadro sull’ emergenza climatica delle Nazioni Unite, potrebbe succedere che la prossima COP 30, che si svolgerà a metà novembre a Belem, alle porte del Rio delle Amazzoni e in uno dei Paesi BRICS, il Brasile di Lula, si riveli più interessante di quanto ci si aspetti.
Lula ha fortemente voluto la COP nel suo Paese. Intanto per motivi interni: Bolsonaro, appena eletto, fece saltare l’ospitalità prevista in Brasile e la COP dovette essere trasferita in fretta e furia a Madrid a dicembre 2019. E Lula vuole marcare la differenza. Inoltre, proprio perché Trump non ci sarà, potrebbe essere un palcoscenico interessante per i BRICS e altri Paesi alla ribalta. Negli anni passati l’India ha vestito i panni, specie alla COP di Glasgow dove Modi fece un intervento molto duro con i Paesi ricchi e industrializzati, di paladina dei Paesi piccoli e con sviluppo inferiore, per garantirsi alcuni anni di minore mitigazione climatica al fine di raggiungere prima il picco energetico, per poi cominciare la transizione ambientale e il passaggio alle energie rinnovabili. In effetti l’India è oggi tra i Paesi -considerandola tra i primi dieci con più grandi emissioni di Co2 - che ha virtuosamente invertito la rotta con maggiore evidenza, e potrà rivendicare questo ruolo in Brasile, in un ambiente favorevole, e assieme al Leader di un Paese che con lei è schierato tra i BRICS. Poi c’è l’incognita della Cina. Che nelle COP come in tutte le sue manifestazioni diplomatiche alterna periodi di grande e visibile presenza con periodi di prudente vigilanza. Stiamo parlando di un Paese con il più alto tasso di emissioni nell’aria al mondo, che proprio per questo aveva annunciato il raggiungimento del picco di emissioni nel 2030 e solo da allora la discesa del tasso di emissioni, in trenta anni successivi col traguardo a “Net zero” nel 2060. Sembra però che secondo alcuni studiosi e specialisti la Cina abbia già raggiunto il picco previsto nel 2030, e quindi possa cominciare una discesa in anticipo. Se questo fosse vero lo scopriremo anche dall’atteggiamento che terrà a novembre a Belem. La Cina fu decisiva per la partenza del Trattato di Parigi e il suo beneplacito al trattato fu firmato simbolicamente assieme al Presidente USA di allora, Barack Obama. Non è escluso che possa decidere a seconda dell’esito futuro dei suoi accordi o disaccordi con il Presidente Trump. Potrebbe barattare con lui una consonanza in cambio di una “confrontation” economica meno urticante. Oppure decidere di cavalcare la COP 30 e farsi protagonista di una azione che metta in luce i suoi possibili risultati positivi anticipati e isolare così la posizione statunitense. Non lo sappiamo al momento e dovremo aspettare fine anno per capirlo.
O almeno il momento in cui i Paesi che aderiscono all’ accordo convenzione quadro non abbiano depositato i loro NDC (Nationally Determined Contributions) ovvero il quadro nazionale di risultati conseguiti, su cui si discuterà a Belem. Finora tra i grandi Paesi hanno consegnato la loro memoria 2025 -oltre ovviamente al Brasile- la Gran Bretagna, la Nuova Zelanda, il Canada e il Giappone. Mentre va segnalato che gli Stati Uniti hanno consegnato un aggiornamento 2024 con obiettivi fino al 2035 in un uno degli ultimi atti del Presidente Biden, poco prima di Natale 2024, esattamente il 19 dicembre. Forse richiamandosi proprio a questo, e al fatto che solo gli USA hanno fatto meglio dell’ India nella riduzione delle emissioni degli ultimi quattro anni tra i Paesi più inquinanti al mondo, il neo Presidente della COP 30, Andrea Correa do Lago, da poco nominato dal Presidente Lula, nel commentare una lettera di presentazione e invito che ha scritto a tutti gli Stati delle Nazioni Unite che sono nella Convenzione per il Clima, ha parlato di grande opportunità per cercare un accordo non ideologico e di speranza per una presenza centrale degli USA.
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on tanto alla COP 30 dove non se l’aspetta, ma nelle attività quotidiane, negli impegni del mondo economico e della società civile. Segno che nelle sessioni consuete, che non sono più ormai un corollario di confronto, come al principio, ma vere sessioni di lavoro, nel mondo del business e delle imprese impegnate per l’Ambiente e le energie rinnovabili e delle ONG globali, gli USA con i loro capitani d’industria e presidenti di associazioni e movimenti saranno “strainvitatissimi”.
Andrea Correa do Lago è un fine diplomatico da tantissimi anni, lo si vede da queste prime mosse, e avrà al fianco come direttrice esecutiva della COP 30, Ana Toni, economista e Segretaria di Stato del Brasile per cambiamento climatico ed energia.
La loro offensiva diplomatica, fatta di empatia e confronto con tutti è già cominciata. E certamente anche Lula si spenderà parecchio. Indubbiamente il confronto col “no” di Trump e i suoi eventuali effetti sarà un altro input interessante. Non mancherà di esercitare fascino essere in uno dei pochi polmoni ambientali inviolati del nostro Pianeta, la Foresta Amazzonica. Un simbolo che assieme alle condizioni politiche mondiali in grande tumulto e ad oggi sostanzialmente imprevedibili, potrebbe portare persino ad un risultato impensato: la COP Onu risorta dalle sue ceneri. Chissà.