

L’ Africa ha grandi opportunità ma anche i suoi problemi e tra questi la creazione e diffusione di energia non è certo tra i minori. Tentativi di cambiamento e di innesto di energie rinnovabili ci sono e anche ad alto livello. Ma comportano delle scelte immediate e delle conseguenze per il resto del mondo. Stiamo parlando di un continente dove, secondo le ultime stime, riferite al 2024, dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, IEA, circa 600 milioni di persone vivono senza elettricità e quasi un miliardo non hanno accesso ad un piatto giornaliero sanificato o pulito dal punto di vista igienico per assenza di fonti di energia.
L’ Agenzia ritiene che da qui alla fine della decade si debba ipotizzare una spesa di circa 200 miliardi di dollari per garantire il raggiungimento degli obiettivi Onu del 2030, al ritmo di almeno 25 miliardi l’anno, come minimo di spesa, per la sola messa a disposizione della energia necessaria agli obiettivi. Che ovviamente non è la sola incombenza, visto che produrre energia, e meglio, energia pulita e rinnovabile, di per sé non garantisce poi la distribuzione, che significa fare un discorso a parte sulla Rete. La “grid”, infatti, come sappiamo anche in Europa, è figlia del sostrato precedente, dei collegamenti reali nei singoli Paesi, dello sfruttamento comune e cooperativo tra Paesi vicini, dello scambio nelle aree di confine regionale, interne ed esterne. È esattamente uno dei punti dolenti del Continente Africano, dove troppo spesso proprio le aree di confine sono contese tra gli Stati e internamente delimitano divisioni secolari di popoli che si differenziano per etnia, usi e costumi. In questo modo il lavoro degli ingegneri e degli architetti strutturali delle Reti di distribuzione diventa un complicato lavoro diplomatico e lo è tanto più quanto si voglia passare da produzione consolidata e tradizionale di energia (dove c’è) a quella più moderna e rinnovabile. In ogni caso secondo il controllo di dati effettuato da IEA, in Africa vengono investiti ogni anno circa 110 miliardi di dollari in energia e di questi è già un grande risultato che circa 40 vadano alle energie rinnovabili, anche se il dato varia, e di molto, da regione a regione africana. Il problema principale però è che per le energie più pulite e rinnovabili servono investimenti ingenti, che invece attualmente ammontano, mettendo assieme i bilanci degli Stati africani a solo l’1,2 per cento del Pil lordo, per tutto il settore energetico mentre le rinnovabili hanno investimenti sotto il 10 per cento.
L’ impressione negli ultimi tempi è che tutte le strade portino a Pechino, per una serie di ragioni anche contingenti, non solo per la consueta abilità diplomatica o commerciale cinese.
Innanzitutto, il fatto che gli USA vivono da anni ormai, non solo con Trump 2 ma anche con Biden prima e il Trump 1, una politica tendenzialmente rivolta al suo fabbisogno economico interno. Non siamo al protezionismo - che peraltro era una tendenza più evidente nelle amministrazioni democratiche rispetto a quelle repubblicane - ma poco ci manca. In ogni caso la scelta di Trump di ritirarsi dalle COP delle Nazioni Unite sul clima ha determinato inevitabilmente una attenzione maggiore alla Cina come competitor.
Nelle COP precedenti, e in particolare a Glasgow, era stato il leader indiano Modi a dar voce ai Paesi non sviluppati che chiedevano i mezzi per portarsi al picco di energia richiesta per impostare un cambio verso le rinnovabili, e cioè soldi e attrezzatura tecnologica. La Cina non se lo è fatta dire due volte e forte della sua linea, indicata già dalla sua adesione al Trattato di Parigi, ha premuto l’acceleratore sulla produzione di pannelli solari e di pale eoliche oltre che sulle strutture di trasformazione di questo tipo di energia. Al punto di arrivare in breve a una sovrapproduzione che necessita di mercati esteri. Da qui nasce l’abbassamento di prezzi dei materiali cinesi, che diviene provvidenziale per Paesi molto indebitati come sono quelli africani.
Una fondazione di centri studi internazionali sulle dinamiche economiche ambientali, Ember, recentemente ha pubblicato un report secondo cui nel 2024 la Cina ha esportato così tanto in Africa da permettere la produzione, con energie rinnovabili, di quasi 35 Gigawatt, poco meno del doppio del 2023. La Cina offre materiali per cui gli Stati africani più ricchi possono spendere oggi, mentre quelli meno ricchi sono pronti e lo potranno fare a breve. Così Sudafrica e Nigeria importano pannelli solari interi o celle solari da assemblare nei loro Paesi e la Sierra Leone ha importato dalla Cina, tra 2023 e 2024, strutture per il solare e l’eolico che valgono la metà della sua attuale produzione di elettricità, mentre il Ciad è poco al di sotto della metà. L’Algeria ha invece chiesto di importare e assemblare in loco, attraverso provvedimenti legislativi e amministrativi, pannelli solari che permetteranno di coprire tutti gli spazi liberi nelle fattorie e allevamenti. Al momento, questi esempi lo confermano, si tratta di una linea economica “win-win”: gli Stati africani chiedono ma possono spendere poco; la Cina ha una superproduzione che nel loro Paese ristagnerebbe e preferisce vendere a un prezzo più basso visto che gli USA su queste linee di energia “green” hanno deciso di disimpegnarsi, almeno politicamente.
Al momento la Cina respira e certamente il mercato africano è lungi dall’essere saturato, anzi siamo solo all’inizio, come abbiamo visto dai dati dell’Agenzia Internazionale dell’Energia; tuttavia, bisogna forse interrogarsi da dove nasce questa sovrapproduzione di settore che permette anche prezzi bassi. Qui, riprendendo proprio l’analisi di Ember, scopriamo come nella Cina stessa, nel 2024, l’ eolico e il solare sono cresciuti del 25 per cento rispetto all’anno precedente, facendo divenire il Paese il più grande investitore al mondo in energie rinnovabili: 625 miliardi di dollari, il 31 per cento della spesa totale del pianeta; solo che in una situazione strutturata oramai come quella cinese, in proporzione è cresciuto anche l’ investimento sulla Rete di accumulo e distribuzione, giunto a 85 miliardi di dollari, anche qui più 25 per cento.
È chiaro, dunque, che la scelta della transizione ecologica delle energie rinnovabili una volta giunta in Cina rimarrà stabile per molto tempo, almeno fino a che non cambino i dirigenti politici nazionali. Non solo per fare miglior figura del passato ai vertici ambientali, ma anche perché a Pechino conviene produrre strumenti tecnologici e materiali che sa di poter vendere a prezzi che le permettono di guadagnarci sia economicamente che in relazioni diplomatiche, come in Africa. La nuova strada presa dalla dirigenza politica prima e dai manager e il mercato cinese poi, è difatti il frutto anch’ esso di una lunga marcia ma con tappe ben precise: dal 1979 al 2010 la Cina cresceva economicamente al tasso medio del 10 per cento ma anche il carbone, per esempio, con l’estrazione e il suo uso, cresceva fino a 6 volte rispetto a quanto se ne usasse in precedenza. Oggi invece, complice la firma al tempo del Trattato di Parigi 2015 - e ricordiamo che fu la Cina del Presidente XI Jinping firmando assieme agli Usa del Presidente Obama che lo rese operativo nel novembre 2016- da Pechino si assicura che la strada della decarbonizzazione è stata imboccata senza possibili ritorni.
Se non i numeri quantomeno le intenzioni e l’ideologia non manca visto che la Costituzione cinese, rinnovata parzialmente nel 2018, enfatizza la visione “dell’armonia tra l’umanità e la natura”. Corroborata però da un libro bianco del Governo sulla transizione energetica cinese, che è divenuto ovviamente il vademecum per la società e il mercato di Pechino. Conosciamo la forza di volontà e la consumata capacità di perseguire obiettivi della Cina, nonché i suoi mille tentativi per stabilire “vie della seta” interne, marine, e anche tra i ghiacciai perenni dei poli.
Di certo in Africa ha trovato un mercato disponibile e attento oltre che alla forma, anche e soprattutto ai prezzi necessari per le sue esigenze. Non perdiamo l’Africa di vista.