SOSTENIBILITA'
La sostenibilità si misura negli anni
In termini di riuso, riciclo e riutilizzo dello sforzo olimpico, il genio italico rimane insuperato. Dalle infrastrutture, ancora oggi pienamente operative, alle prime Paralimpiadi: ecco perché Roma 1960 è sempre un punto di riferimento
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Londra 2012 hanno usato il butano al posto della benzina per la torcia olimpica. A Rio 2016, tra le altre cose, ci hanno detto che tutto il cibo era sotto l’egida della sostenibilità: dalla produzione al riciclo degli avanzi.
Per Tokyo avevano scomodato perfino le Nazioni Unite, prima della pandemia, proponendo un documento di oltre 35 pagine per garantire che si tratta della prima Olimpiade “sostenibile” secondo i canoni degli Accordi di Parigi del dicembre 2015. Poi magari la frenesia della ripresa e la voglia di rincontrarsi, anche se in una “bolla anti Covid”, avrà il sopravvento e qualche “peccatuccio” ecologico sarà nascosto sotto il tappeto. Come peraltro è avvenuto a Londra, ancora alle prese con lo “smontaggio” di alcune opere del 2012 o peggio a Rio, dove certamente le promesse migliorie agli impianti periferici e nelle favelas sono ancora di là dal venire.
La verità è che se si vuole andare a vedere gli effetti di riuso, riciclo e riutilizzo dello sforzo olimpico, il genio italico che portò a Cortina 1956 ed ancora di più a Roma 1960, rimane insuperato. Ma, si sa, noi italiani siamo naturalmente portati a sminuirci o a guerreggiare tra noi per ragioni di campanile, piuttosto che a far tesoro di ciò che sappiamo fare.
L’ultima Olimpiade “a misura d’uomo”
Roma 1960 fu, a detta di molti, l’ultima Olimpiade “a misura d’uomo”.
Nel senso di una partecipazione popolare della città e della nazione organizzatrice (l’Italia felice del “miracolo” post guerra e della “Dolce vita”), e di una visione di relazioni positive tra le nazioni: si era alla vigilia della Guerra Fredda e USA e URSS si combattevano a colpi di ammiccanti spie anche tra gli atleti, ma le Germanie, ormai divise, parteciparono con un’unica bandiera; mentre ben 17 paesi africani “decolonizzati” presero posto per la prima volta nel consesso olimpico e si trovò un “accomodamento” perfino per la questione Cina Popolare e Taiwan.
Ma a parte questo (che non è poca cosa...) e le belle storie umane di Berruti e Wilma Rudolph, di Cassius Clay, ancora non divenuto Mohammad Alì, del maratoneta scalzo Abebe Bikila, giova ricordare che, se si guarda alle opere realizzate, forse Roma mantiene anche il primato del riciclo e riuso ancora oggi dei suoi impianti.
Ecologia e sostenibilità “antemarcia”? Ci limitiamo a “giocare”, ma neanche troppo, coi risultati concreti e ciò che hanno determinato ancora oggi.
Pensiamo alla Via “Olimpica”, un’arteria a scorrimento veloce per collegare Eur e Foro Italico, sede di due impianti tra i più utilizzati, ovvero lo Stadio Olimpico ed il Palazzo dello Sport, nata per garantire un “taglio” della città da Nord a Sud e base di partenza per altri ampliamenti viari, come quelli per i Mondiali di calcio del 1990 o per il Giubileo.
In ogni caso, e a parte l’inverecondo traffico di una arteria pensata per un decimo del traffico oggi esistente, la struttura è ancora lì e pienamente utilizzabile.
Gli impianti sportivi Stadio Olimpico, Stadio dei Marmi, Palazzo dello Sport sono, anch’essi, ancora lì, migliorati forse dai Mondiali 1990 o ancora da migliorare e manutenere.
Ecco, la manutenzione, quella “ordinaria” poi, noi in Italia spesso non sappiamo cosa significhi (pensate allo splendido Stadio Flaminio, oggi a rischio crollo oppure al Velodromo Olimpico lasciato all’incuria fino ad un discutibile abbattimento qualche anno fa). Quella “straordinaria” avviene - come detto - ogni tanto, in occasione di Mondiali, Europei o fatti di grande risonanza generale. Ma gli impianti sono lì e se avessero una manutenzione ordinaria ed un utilizzo più diffuso e democratico tra associazioni sportive e associazioni di cittadini sarebbero forse pieni tutti i giorni.
D’altronde stiamo parlando di impianti e strutture pensate sotto il coordinamento del grande architetto Pierluigi Nervi, con altri architetti del calibro di Del Debbio, Vitellozzi, Piacentini, Clerici. Loro hanno pensato agli impianti sportivi principali da realizzare, a quelli di allenamento, al riuso di spazi storici della città, come Piazza di Siena a Villa Borghese per i concorsi ippici o la Basilica di Massenzio per la lotta greco romana, al riutilizzo di opere di Eur 42, l’esposizione mai fatta a causa della seconda guerra mondiale, nel quartiere omonimo, nel cui Palazzo dei Congressi vi fu la sempre medagliata scherma azzurra, senza contare la Maratona tra le fiaccole della notte sul percorso storico monumentale che si concluse sotto l’Arco di Costantino ed il Colosseo (Napoli per la vela e il Lago di Albano-purtroppo oggi in rovina anche se ancora usato dalla federazione canoa - furono altri luoghi “fatidici”).
Ovviamente questi architetti furono responsabili anche della realizzazione di un villaggio olimpico che ospitasse gli atleti mettendoli in relazione tra di loro e con la città.
Il villaggio olimpico
Il villaggio degli atleti fu una grande innovazione non solo perché rese “umano” il confronto e il paragone tra atleti provenienti da tutto il mondo senza relegarli alle “maschere” di politica estera della incipiente “guerra fredda”, ma anche per la sua costruzione e riutilizzo.
Oggi c’è chi abita l’appartamento che fu di Cassius Clay (ma forse neanche lo sa...). E c’è chi ha la fortuna di risiedere in un palazzo non troppo alto studiato con cura da architetti di livello internazionale (altro che il chilometro di Corviale) con vegetazione piacevole, con piazze e vie collegate, con una struttura di “borgo”, inserita pienamente nella città, a contatto di servizi di collegamento e di reti viarie che potrebbero se ben utilizzate essere davvero efficienti.
Più riuso di così...
D’ altronde, prima che ci fossero anche il Club di Roma e quello di Kyoto, e molto prima dell’Accordo di Parigi 2015, sapete quali erano le regole che si erano dati gli architetti coinvolti? Eccole dal documento preparatorio del pool di architettura ed edilizia:
• evitare rifiniture di pregio o particolarmente costose (una eccezione fu fatta per il solo Palazzo dello Sport);
• evitare la costruzione di impianti su terreni appartenenti a privati;
• utilizzare quali impianti sussidiari, fin quando possibile, quegli impianti esistenti, convenientemente sottoposti a ripristini e rifacimenti;
• tenere conto, nello studio, delle capienze per il pubblico in occasione delle Olimpiadi e delle esigenze dell’impianto ad Olimpiadi concluse.
Regole che potrebbero essere sottoscritte (magari!) ancora oggi, per garantire sostenibilità urbanistica e una Olimpiade (e ad una urbanistica “quotidiana”) più che ecologica. Poi certo si potrà discutere dei materiali di oltre 60 anni fa, ma quanta saggezza! E stiamo parlando di una Olimpiade non certamente di piccolo taglio, perché pur se a “dimensione umana”, si tratta pur sempre di un evento sportivo con 7.000 atleti, relativi accompagnatori e allenatori, gli ufficiali delle delegazioni, i giudici nazionali e stranieri, i giornalisti nazionali e stranieri, il personale del comitato organizzatore, i dirigenti delle federazioni internazionali e del Cio, gli ospiti d’onore tra cui una miriade di capi di Stato e di governo, con tutti i relativi problemi di alloggiamento e di trasporto. Fu un lavoro che prese quattro anni, dal 1956 al 1960 con risultati che sarebbero utili da ritrovare anche oggi per una capitale e città moderna. Ovviamente aggiungendo criteri e specifiche di sostenibilità ormai alla portata delle città moderne e di cui sta facendo tesoro soprattutto Parigi, per l’edizione del 2024, che sta cambiando mobilità urbana ed urbanistica nelle strutture quotidiane di quella città già da oggi.
I primi giochi per atleti con disabilità
Inoltre, e non è poca cosa anch’esso, un altro primato per Roma 1960 segue il filone della “sostenibilità sociale”: non molti sanno che Roma 1960 fu anche la prima Olimpiade dei giochi paralimpici, con 400 atleti di 23 paesi all’Acquacetosa, alla presenza del Presidente della Repubblica Gronchi e con l’accoglienza in Vaticano di Papa Giovanni XXIII.
Certo con le difficoltà dell’epoca (il Villaggio Olimpico non era attrezzato per questo genere di atleti e fu l’esercito italiano, allora ancora di leva, a rendere possibili trasporto e collegamenti) ma con una visione del futuro che oggi porta a Paralimpiadi seguitissime sugli schermi e negli stadi e che nulla hanno da invidiare alle Olimpiadi “ufficiali”. Anche qui una legacy, un lascito che ha dato frutti.
La sostenibilità dunque, al termine di questo “gioco” distopico nel tempo delle prime Olimpiadi davvero globali ed ancora a dimensione umana-Roma 1960- si conferma come un impegno serio globale, con una visione olistica delle necessità dell’umanità. Sapremo comprendere questa lezione nel XXI secolo, quando c’è bisogno di una Olimpiade siffatta per far ripartire il nostro pianeta dopo la scossa globale della pandemia?