ESPANSIONE
L’egemonia del Dragone
Da dodici anni consecutivi, la Cina è il principale partner commerciale e il maggior investitore in Africa. Insieme all’ingente flusso di finanziamenti, Pechino porta nel Continente la sua ingombrante influenza politica
12 minNel gennaio del 2012 i leader africani si riunirono ad Addis Abeba, la capitale dell’Etiopia, per inaugurare il nuovo, futuristico palazzo dell’Unione africana. Un progetto da 200 milioni di dollari, ecosostenibile, sviluppato su un’area complessiva di 112 mila metri quadrati, con una struttura principale da venti piani, e poi 32 sale conferenze, un centro congressi da 2.500 persone. Tutto pagato dalla China State Construction Engineering Corporation, la gigantesca azienda di costruzioni di proprietà del governo cinese. L’allora presidente dell’Unione africana, il leader della Guinea Equatoriale, Teodoro Obiang Nguema, disse durante la cerimonia d’inaugurazione che quel palazzo era “il simbolo della nuova Africa”. In realtà, era soprattutto il simbolo della nuova relazione tra l’Africa e la Cina. Pechino stava regalando all’organizzazione politica più importante del continente africano l’intero complesso: alla sua costruzione avevano lavorato dipendenti cinesi, i materiali usati per costruirlo e perfino gli arredi vennero fatti arrivare dalla Cina. Tutto gratis? Non proprio. Cinque anni dopo la sua inaugurazione, un addetto alla sicurezza del palazzo dell’Unione africana notò che ogni notte, tra mezzanotte e le due, c’era una strana fuoriuscita di una gran quantità di dati dalla rete interna del palazzo. E quei dati finivano a Shanghai. Dopo una lunga indagine interna e un’inchiesta del giornale francese Le Monde, si scoprì che i computer e le attrezzature elettroniche che la Cina aveva donato all’Unione africana avevano tutti una backdoor dalla quale i dati venivano trasferiti in Cina. Pechino negò, ma lo spionaggio nel centro del potere dei paesi africani – dove si decidono le politiche e si parla anche delle necessità più urgenti dei paesi membri – andava avanti sin dall’inaugurazione del 2012. Ed è facile intuire perché: le informazioni sono essenziali nel grande progetto cinese di aumentare la sua influenza all’estero, soprattutto nei luoghi lasciati scoperti dalla cooperazione allo sviluppo occidentale.
Debiti e diritti
La presenza cinese in Africa è spesso oggetto di critiche per quella che viene definita la “trappola del debito”. I progetti finanziati dai prestiti cinesi nel continente africano, tra il 2000 e il 2019, hanno raggiunto i 153 miliardi di dollari. Molti dei paesi che usufruiscono dei prestiti poi sono impossibilitati a ripagarli, con il conseguente rischio di una cessione di sovranità sull’infrastruttura o il progetto designato. Al tempo stesso, la nuova definizione di diritti umani promossa dalla Cina fa gioco alle autocrazie africane, perché non viene chiesto loro alcun miglioramento dal punto di vista delle libertà e del sistema di governo – non esistono i “diritti umani universali”, ha detto il ministro degli Esteri cinese Wang Yi durante la 49° sessione del Consiglio dei diritti umani di Ginevra, ma “la causa dei diritti umani può essere portata avanti solo alla luce della realtà di ciascun paese e dei bisogni della sua popolazione”.
Anche per questo la Cina è rimasta il principale partner commerciale e maggior investitore in Africa da ben dodici anni consecutivi. L’America arriva subito dopo. In terza posizione c’è la Francia, e poi la Turchia. Secondo gli ultimi dati disponibili, quelli del 2021, diffusi dall’Amministrazione generale delle dogane cinese, il commercio bilaterale totale tra la Cina e l’Africa ha raggiunto i 254,3 miliardi di dollari, in crescita del 35,3 percento su base annua. Nel secondo anno della pandemia da Coronavirus, l’Africa ha esportato verso la Cina 105,9 miliardi di dollari di merci, con una crescita annua dell’export del 43,7 percento. E nonostante i problemi di comunicazione e della catena di approvvigionamento dovuti al Covid-19, anche l’export cinese in Africa è cresciuto del 29,9 percento rispetto all’anno precedente, per via dell’aumento della domanda di beni essenziali durante una pandemia come i prodotti farmaceutici, i presidi medici di sicurezza, le mascherine, le tute anticontaminazione e i prodotti chimici. Più della metà dell’intero valore commerciale dei rapporti tra Cina e Africa è rappresentato da cinque paesi africani: Sudafrica, Nigeria, Angola, Egitto e Congo.
Un cambio di paradigma
Per la seconda economia del mondo, i rapporti con l’Africa rappresentano solo il 4 percento del suo commercio globale, un numero piccolo rispetto agli interessi commerciali con i partner asiatici e perfino sudamericani. Quello che conta, dei rapporti tra la Cina e l’Africa, è però ben più strategico, perché l’export africano in Cina riguarda soprattutto minerali e metalli, di cui Pechino ha bisogno, e influenza politica. Cioè un cambiamento radicale del modello di investimenti nei paesi in via di sviluppo, che in Giappone, per esempio, osservano da tempo: “La Cina ha fatto breccia economicamente e in altri campi in Africa e in centro e sud America”, ha detto il ministro degli Esteri giapponese Toshimitsu Motegi dopo un viaggio in Senegal e in Kenya lo scorso anno, a gennaio, subito dopo quello del suo omologo cinese Wang Yi in Eritrea, Kenya e alle isole Comore. Il cambio di paradigma è anche diplomatico: l’anno solare cinese si apre sempre con una missione del ministro degli Esteri in alcuni paesi africani. Sin dal 2014 Wang ha visitato 35 paesi africani. E a far scoprire l’Africa alla Cina è stato soprattutto il settore energetico.
Il primo progetto di una centrale idroelettrica cinese nel continente è degli anni Sessanta. La centrale di Kinkon, in Guinea, è anche il simbolo di una collaborazione ormai divenuta tradizionale. La centrale di Kinkon, costruita dalla Cina due anni dopo l’indipendenza della Guinea, è finita pure sulle banconote del Franco guineano. Dopo quell’episodio degli anni Sessanta, gli investimenti cinesi in Africa si fermarono per un trentennio, fino alla politica di partecipazione all’economia internazionale promossa dall’allora presidente Jiang Zemin all’inizio degli anni Novanta. La Cina doveva crescere, e aveva bisogno di petrolio, che iniziò a importare soprattutto da Angola e Sudan. Nel 2007, circa un terzo delle importazioni cinesi di greggio proveniva dall’Africa. Poi, nel corso dell’ultimo decennio, la potenza geostrategica cinese ha iniziato a diversificare le sue importazioni, rafforzando i rapporti con paesi come Libia, Arabia Saudita e Iran – Pechino investirà 400 miliardi di dollari in Iran in cambio di forniture di petrolio. Secondo l’Agenzia internazionale per l’Energia le importazioni cinesi dal medio oriente raddoppieranno entro il 2035, nonostante l’instabilità politica nella regione. Pechino vuole avere diverse fonti di approvvigionamento di petrolio per evitare altri fallimenti come quelli con il Sud Sudan. Prima del 2011 la Cina aveva investito miliardi di dollari nei giacimenti petroliferi dell’allora Sudan unito, e da lì importava circa il 5 percento di petrolio. Poi, dopo l’indipendenza del Sud Sudan, la China National Petroleum Corporation e la Sinopec aveva preso rispettivamente il 41 percento e il 6 percento della compagnia statale petrolifera del paese. Ma l’instabilità interna, le sanzioni americane e la difficile gestione degli impianti hanno reso il Sud Sudan un produttore poco affidabile per la Cina, che ha deciso di disinvestire. Solo l’Angola resta un alleato di ferro anche dal punto di vista energetico, l’unico paese africano che rappresenta ancora il 10 percento delle importazioni di greggio in Cina.
Ma nonostante la politica di diversificazione sull’import di petrolio, per la Cina i rapporti strategici con l’Africa continuano a essere importantissimi. E il motivo è il petrolio del mondo contemporaneo, le materie prime che servono all’industria della tecnologia.
Cobalto e terre rare: il nuovo oro nero
Il modello è quello dell’oro: nei primi anni Duemila, la Cina importava il metallo prezioso dall’Eritrea, poi nel giro di cinque anni è passata all’acquisizione delle uniche due miniere operative del paese, quelle di Bisha e di Koka. Anche il progetto di Asmara di una miniera di rame-zinco-oro-argento è di proprietà di una società cinese, la Sichuan Road and Bridge Mining Investment development corporation. Pechino ha alcuni investimenti particolarmente significativi nell’estrazione del cobalto in tutta la Repubblica democratica del Congo, dove attualmente si trova il 60 percento delle riserve globali di cobalto. E poi ci sono le terre rare, un gruppo di 17 elementi chimici fondamentali nella produzione tecnologica e dei microchip. Attualmente la Cina domina il mercato: produce circa il 60 percento delle terre rare, ed elabora e raffina circa l’80 percento del fabbisogno mondiale. I grandi player globali sono praticamente dipendenti dall’export cinese, che da anni va a cercare i depositi minerari anche nel continente africano, che finora ha sfruttato poco i suoi giacimenti, presenti soprattutto nei paesi a sud e a est come Sudafrica, Kenya, Namibia, Mozambico, Tanzania e Zambia.
Nel resto del continente africano, Pechino ha altri obiettivi. Gli investimenti diretti riguardano infrastrutture tradizionali come strade, porti e ferrovie ma anche l’integrazione alla rete di telecomunicazioni sfruttando colossi come Huawei e Zte. Recentemente, dal punto di vista politico, i governi africani hanno iniziato a controllare e negoziare a loro maggior vantaggio i contratti di finanziamento cinesi – l’ultimo esempio negativo è quello dell’Uganda, che rischia di perdere la proprietà del suo unico aeroporto internazionale, quello di Entebbe, perché non è in grado di ripagare il prestito da 200 milioni di dollari cinese. Ma è importante notare che grazie a queste politiche d’investimento su 54 paesi che compongono il continente africano, 46 hanno già firmato l’adesione alla Via della Seta, il mastodontico progetto d’influenza politica, economica e militare di Pechino. La nuova fase della sua influenza è stata inaugurata nel 2017, quando la Cina ha stabilito la sua prima base navale d’oltremare nel piccolo paese dell’Africa orientale, Gibuti, a pochi chilometri da Camp Lemonnier, quella della Marina militare degli Stati Uniti. A breve ne aprirà un’altra in Guinea equatoriale. A quel punto sarà difficile per la Cina dire di aver esportato in Africa un modello molto diverso da quello occidentale.