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Il pragmatismo cinesedi Giulia Pompili
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La via del green

Il pragmatismo cinese

di Giulia Pompili

Al centro della strategia di Pechino per i prossimi cinque anni c’è la sicurezza energetica. Niente tetti al consumo di carbone ma l’obiettivo al 2025 di portare al 39 percento la quota di energia prodotta non da fonti fossili

10 min

A

l Terzo Forum sulla Via della seta, l’evento che si è svolto a Pechino il 17 e 18 ottobre scorsi, il presidente della COP28 ha elogiato la Cina per aver “guidato la crescita verde non solo nei Paesi della Via della seta, ma in tutto il mondo”. Sultan Al Jaber, inviato speciale degli Emirati Arabi Uniti, ha partecipato in presenza all’evento politico più importante dell’anno per il leader Xi Jinping: il summit che celebra il grande progetto strategico d’influenza globale della Cina, che è anche il maggior responsabile delle emissioni di gas serra al mondo, organizzato a dieci anni esatti dal suo lancio.

 

Le prime due edizioni del Forum sulla Via della seta erano state molto partecipate: quello del 2017 vide la presenza di gran parte dei leader internazionali, anche europei, compreso l’allora presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni. Due anni dopo, quando qualcuno iniziava a vedere le storture del progetto cinese, soprattutto nei paesi in via di sviluppo dove la trappola del debito e la coercizione da parte di Pechino rischiavano di trasformarsi in un’arma politica, l’Italia aveva appena firmato il suo ingresso nella Via della seta: fu allora il presidente del Consiglio Giuseppe Conte a volare nella capitale cinese. Ma già quattro anni fa, i partecipanti occidentali al vertice iniziavano a diminuire drasticamente.

 

La tradizionale foto di famiglia del Terzo Forum sulla Via della seta di ottobre è una perfetta rappresentazione degli alleati e partner della Repubblica popolare cinese in questo momento: al fianco del leader Xi Jinping c’era il presidente della Federazione russa Vladimir Putin, al suo primo viaggio in Cina dall’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia. C’era il primo ministro ungherese Viktor Orban, unico rappresentante dell’Unione europea, e il Presidente serbo Aleksander Vucic, i rappresentanti di quasi tutti i paesi dell’Asia centrale – soprattutto il grande alleato di Xi, il Presidente kazako Kassym-Jomart Tokayev – e poi, tra il Primo ministro egiziano Mostafa Madbouly, il Presidente argentino Alberto Fernandez e il Presidente cileno Gabriel Boric, c’era Sa’ud bin Saqr al-Qasimi, membro del Consiglio supremo federale degli Emirati Arabi Uniti.

 

Il piano quinquennale 2021-2025

Nel suo discorso programmatico all’ultimo Congresso del Partito comunista cinese, nell’ottobre del 2022, il leader Xi ha ribadito ancora una volta la necessità per la Cina di migliorare “la rete di produzione, fornitura, stoccaggio e vendita di energia e di garantire la sicurezza energetica” al paese: per farlo, però, ha bisogno di alleati e partner. A marzo l’Amministrazione nazionale dell’Energia, che fa parte del Consiglio di stato cinese – nella nomenclatura della Repubblica popolare è il braccio operativo della politica – ha pubblicato un piano quinquennale per il settore che definisce lo sviluppo dell’industria dal 2021 al 2025. L’obiettivo generale del documento è quello di accelerare lo sviluppo di un “sistema energetico moderno e resiliente”, fissare gli obiettivi quantitativi sulla produzione di energia tramite petrolio e gas e riaffermare il ruolo cruciale del carbone e dell’energia da carbone, senza porne dei tetti al consumo.

 

la fotoNonostante i rapporti diplomatici con Washington ai minimi storici, l’inviato speciale Usa per il clima era a Pechino a luglio 

 

Il piano però afferma due obiettivi specifici: uno sulla percentuale di produzione di energia non fossile, che entro il 2025 dovrebbe raggiungere il 39 percento della produzione totale di energia, e un altro sull’energia elettrica, che dovrebbe rappresentare entro lo stesso anno circa il 30 percento del consumo totale. Nel documento si intravede l’urgente necessità da parte della leadership di intensificare la produzione interna di energia – non solo l’import e lo stoccaggio – un elemento che secondo diversi osservatori, tra cui l’ex vice consigliere per la Sicurezza nazionale americano Matthew Pottinger, potrebbe dirci qualcosa della direzione della Cina: in caso di crisi, in caso di guerra, e quindi di isolamento e sanzioni, Pechino ha bisogno di una linea vitale di sopravvivenza energetica.

 

Sultan Al Jaber – che non è soltanto il presidente della COP di quest’anno, ma anche ministro dell’Industria e della Tecnologia emiratino nonché capo della compagnia petrolifera nazionale di Abu Dhabi, la ADNOC – è il volto perfetto della strategia energetica di Xi Jinping. I cambiamenti climatici, le politiche green, la transizione energetica: tutto contribuisce a costruire un’immagine ben precisa della seconda economia globale, responsabile nei confronti del mondo e delle generazioni future, che sa negoziare e dialogare anche con chi mostra facilmente contraddizioni e limiti su certi argomenti, come quello, per esempio, dello stato di diritto e dei diritti umani. In questo senso, l’offensiva diplomatica di Pechino con i paesi del Golfo è stata un successo.

 

la fotoIl museo d’arte di Chengdu, Sichuan, Cina 

 

E poco importa se la sicurezza energetica della Cina passa attraverso l’indiretto finanziamento della guerra di Vladimir Putin contro l’Ucraina: all’inizio di ottobre è stata l’Agenzia nazionale ucraina per la prevenzione della corruzione a ufficializzare l’ingresso nella lista delle aziende “sponsor internazionali della guerra” della China National Offshore Oil Corporation (Gruppo CNOOC), della China Petrochemical Corporation (Gruppo Sinopec) e della China National Petroleum Corporation (CNPC). Secondo i dati del gigante petrolifero russo Rosneft, le esportazioni di petrolio della Russia verso la Cina sono aumentate del 25 percento nel 2023 fino a superare i 75 milioni di tonnellate, e nei primi otto mesi dell’anno Mosca avrebbe superato l’Arabia Saudita diventando il primo fornitore di petrolio della Cina attraverso il gasdotto/oleodotto Siberia orientale-Oceano Pacifico – secondo Rosneft “più sicuro” delle rotte dal Medio oriente che costringono al trasporto sulle navi cisterna attraverso lo Stretto di Hormuz o il Canale di Suez.

 

Il monopolio della tecnologia green

Eppure, di clima e di politiche green la Cina parla con tutti, perfino con l’America. Nonostante i rapporti diplomatici con Washington siano ai minimi storici, l’inviato speciale di Joe Biden per il clima, John Kerry, ha visitato Pechino per dei colloqui sul clima a luglio 2023, e i funzionari cinesi continuano a tenere aperti in canali di comunicazione su certi argomenti, proprio per manifestare espressamente quel “senso di responsabilità” che ha le sue fondamenta nella politica della “prosperità comune”.

 

Non a caso quest’anno, nella cornice del Forum sulla Via della seta, la leadership ha inserito un High-level Forum on Green Development, dove il presidente della COP28 Al Jaber ha fatto un discorso introduttivo particolarmente aderente alle politiche cinesi, molto ripreso dai media di stato di Pechino. Ha detto che “la Cina ha il potenziale per guidare il mondo nel trasformare gli obiettivi di Parigi in una realtà solida e duratura”, e che la leadership cinese “ha guidato la crescita verde non solo nei paesi della Via della seta, ma in tutto il mondo”.

Anche perché “tre quarti dei pannelli solari del mondo, il 60 percento di tutte le turbine eoliche e la maggior parte delle batterie agli ioni di litio del mondo provengono dalla Cina” – un sostanziale monopolio della tecnologia green che in realtà preoccupa non poco i paesi occidentali, per via della dipendenza da Pechino nel raggiungimento degli obiettivi sulle emissioni.

 

Al di là dell’immagine internazionale, a Dubai la leadership cinese dovrà gestire anche una questione politica interna

 

La COP28 sarà molto probabilmente l’ultima di Xie Zhenhua, l’inviato speciale di Pechino per il clima. Xie nel 2007 era diventato vicepresidente la Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme cinese, l’organo di pianificazione economica del paese, che è stata anche responsabile della politica climatica della Cina fino al 2018, quando una riforma trasferì i poteri al Ministero dell’ecologia e dell’ambiente. Da anni ormai si parla del pensionamento di quest’uomo di grande diplomazia, e secondo diversi osservatori di dinamiche cinesi, questa sostituzione potrebbe avere un impatto sui negoziati internazionali sul clima della Cina.

 

A fine ottobre, a una conferenza stampa a Pechino, è stato Xia Yingxian, definito dai media statali “il massimo funzionario del ministero per la lotta al cambiamento climatico”, a prendere la parola. Ha detto che i paesi industrializzati devono smetterla con gli “slogan vuoti” e avere un approccio più pragmatico: “I paesi sviluppati hanno un’incrollabile responsabilità storica per il cambiamento climatico globale e ora hanno anche la capacità di affrontarlo”, ha detto. Forse parlava anche della Cina.

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