
L'Artico che verrà
La nuova frontiera della geopolitica globale
Il riscaldamento accelerato dell’Artico sta trasformando la regione in un’arena strategica per risorse, rotte commerciali e sicurezza. Mentre la Russia rafforza la sua presenza e la Cina investe in infrastrutture, l’Occidente ricalibra le proprie mosse
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oche regioni al mondo hanno subìto cambiamenti così repentini negli ultimi venti anni come quella artica. L’Artico è la regione del globo che si sta riscaldando a una velocità doppia, e in alcuni anni anche tripla, rispetto alle medie latitudini: meno ghiaccio significa superfici oceaniche più scure e quindi maggiore assorbimento di energia solare, e questo processo amplifica e accelera lo scioglimento dei ghiacci marini. Tale scenario ha portato adun riassestamento anche geopolitico nella regione. Il ritiro dei ghiacci ha reso disponibili risorse finora inesplorate: secondo lo US Geological Survey nella regione vi sono circa il 12,3 percento delle riserve di petrolio ed il 32,1 percento delle riserve di gas non ancora scoperte a livello mondiale, che vanno ad aggiungersi alle terre rare ed alle materie prime critiche. Il ritiro dei ghiacci ha reso praticabili nuove rotte marittime, sia civili, che militari. Il potenziale dell’Artico porta con sé la necessità di uno sviluppo ulteriore della regione, in termini di porti e infrastrutture, all’insegna della sostenibilità ambientale e del rispetto del fragile ecosistema artico.
La crisi di governance
In un mondo globalizzato in cui la potenza di uno Stato si misura anche sul controllo delle risorse, era inevitabile che l’Artico finisse per diventare una regione a cui le grandi potenze mondiali cominciassero a volgere lo sguardo con interesse.
A differenza dell’Antartide, che è un continente circondato dal mare, l’Artico è un Oceano circondato da terre. È pertanto errato pensare all’Artico come una corsa alla conquista di una Terra Nullius dato che, in quanto Oceano, quella regione rientra sotto l’egida della Convenzione dell’ONU sul diritto del mare che è stata ratificata da tutti gli Stati artici, ossia gli Stati i cui confini si trovano oltre il 66° parallelo Nord, adeccezione degli Stati Uniti. Merita al riguardo rilevare che alcuni Stati artici rivieraschi (Russia, Norvegia, Canada e Danimarca) hanno presentato alla Commissione dell’ONU sui limiti della Piattaforma Continentale una richiesta di estensione della propria Zona Economica Esclusiva e gli Stati Uniti rischiano di rimanere fuori dal tavolo delle negoziazioni, considerando che le coste della Russia rappresentano il 53 percento dell’Oceano artico.
Gli otto Stati artici – Russia, Finlandia, Svezia, Norvegia, Danimarca, Islanda, Canada e Stati Uniti – collaborano fin dal 1996 nell’ambito del Consiglio Artico, il principale forum intergovernativo che promuove la cooperazione, il coordinamento e l’interazione tra gli Stati artici su questioni di sviluppo sostenibile e protezione ambientale nell’Artico. Gli aspetti militari e di sicurezza nazionale non rientrano tra quei settori essendo stati volutamente lasciati fuori dalle attività del Consiglio per garantire una collaborazione pacifica tra tutti i membri.
La crisi ucraina ha avuto come conseguenza la modifica degli equilibri interni al Consiglio e portato a una crisi di governance nella regione: i lavori sono stati sospesi e assunto il format di Arctic7, limitando la capacità di Mosca di esercitare il proprio soft power in un contesto fino ad allora capace di un coordinamento internazionale significativo. Inoltre, l’affrettato ingresso di Svezia e Finlandia nell’Alleanza Atlantica ha reso la Russia l’unico Paese non NATO nello scacchiere artico.
La strategia russa e l’alleanza con la Cina
In realtà, la crisi ucraina non ha fatto altro che esacerbare una tendenza già evidente negli ultimi anni. Dal punto di vista militare, la Russia da tempo aveva già rafforzato la sua presenza lungo le proprie coste artiche, ammodernando ed espandendo le proprie basi ed infrastrutture da Murmansk a Vladivostok. Attività, queste, che non devono tuttavia essere viste come una “militarizzazione dell’Artico” da parte russa, trattandosi in realtà di un ritorno alle proprie basi dei tempi dell’era sovietica. Risale infatti agli anni Novanta la dottrina del “bastione artico” formulato dalla Marina russa secondo cui l’Artico, protetto dai ghiacci, era considerato irraggiungibile da forze militari straniere e consentiva la concentrazione di gran parte della Flotta del Nord nell’area, assicurando una tempestiva risposta in caso di confronto nucleare. A tal riguardo, è sufficiente considerare che l’Artico costituisce anche il punto in cui Russia e Stati Uniti si confrontano direttamente. Lo spostamento delle basi NATO in Svezia e Finlandia potrebbe modificare la percezione di sicurezza della Russia nella regione e per questo causare un effetto “spillover” dato da errori di calcolo e pericolose escalations.
Al quadro appena descritto si aggiungono i rapporti sempre più stretti che Mosca ha avuto negli ultimi anni con la Cina. Pechino è stato l’unico osservatore del Consiglio Artico – status assunto nel 2013 insieme all’Italia – ad aver pubblicato un Libro Bianco sull’Artico nel 2018, il primo che riguarda un’area fuori dai confini cinesi. Pechino si è definito un “Near Arctic State” e ha formulato il concetto di “Polar Silk Road” che si inserisce nel più ampio progetto OBOR – One Belt, One Road.
C’è un aspetto estremamente importante da tenere in considerazione. La rotta artica permetterebbe di collegare l’Asia all’Europa evitando passaggi caldi come Bab El-Mandeb e quello ad imbuto dello Stretto di Malacca. La cosiddetta Northern Sea Route, o Rotta Settentrionale, che passa lungo il continente euroasiatico, rappresenta una notevole scorciatoia per il commercio di beni tra Asia ed Europa e potrebbe arrivare a una diminuzione dei tempi di percorrenza fino al 50 percento rispetto alle rotte di navigazione tradizionali passanti per Panama o Suez. Non vanno inoltre dimenticati gli investimenti cinesi in Artico nel settore energetico, di cui è un esempio perfetto il progetto Arctic LNG e Arctic LNG 2 nella Penisola di Yamal in Russia. Mentre le aziende occidentali si ritirano dai progetti artici russi, le aziende cinesi stanno intervenendo, fornendo investimenti e il supporto tecnologico necessario. Gli investimenti cinesi riguardano numerosi settori, tra i quali l’istituzione di stazioni di ricerca, l’aumento dell’attività ittica e investimenti in progetti minerari. La lungimiranza di Pechino in questa regione risale a ben prima del 2018, poiché l’Artico viene menzionato per la prima volta nel 2011 nel dodicesimo Piano Quinquennale del Partito Comunista Cinese.
Anche in questa strategica regione la cooperazione sino-russa sta sollevando preoccupazioni tra i governi degli Stati occidentali per le conseguenti implicazioni di sicurezza nell’area e non solo. Bisogna sottolineare tuttavia che l’Artico euroasiatico è più sviluppato a livello antropico e infrastrutturale e gli Stati Uniti devono colmare il gap maturato negli ultimi anni, soprattutto a livello militare.
Il fattore Trump
I fattori di criticità e instabilità nell’Artico sono dunque molteplici. In questo contesto geopolitico articolato e complesso si è inserita l’elezione di Donald Trump, che, a gamba tesa e con estrema e spesso brutale franchezza con proclami di disimpegno o di annessioni, appare, o è, intenzionato a rimescolare le carte in tutte le latitudini sconvolgendo ogni verità e logica storica, culturale, geografica e politica e cogliendo impreparati alleati, amici e non.
È chiaro che le diuturne raffiche di dichiarazioni di Trump su temi di politica estera sollevano non pochi interrogativi ed altrettante preoccupazioni anche per le implicazioni nella regione artica, basti pensare alle sue esternazioni sul Canada e più in particolare sulla Groenlandia. Quest’ultima, insieme all’Islanda, ha sempre rappresentato per Washington un collegamento strategico nell’ambito del “ponte transatlantico” già dalla I Guerra Mondiale, fattore ancor più sensibile oggi se consideriamo l’obiettivo statunitense di ridimensionare e contenere la proiezione strategica della Cina. In effetti in un’area come quella artica, la presenza di Pechino potrebbe minacciare da vicino la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, concetto, quest’ultimo, centrale nella politica estera trumpiana.
Un altro aspetto da tenere sotto controllo anche nella regione riguarda la sorte dell’Alleanza Atlantica, nei confronti della quale peraltro non è ancora del tutto chiaro il futuro che ha in mente Trump. Al momento sembra essere noto solo un disegno, tutt’altro che secondario, di ridefinire i rapporti tra gli Stati Uniti, il Canada e gli alleati europei. Se pensiamo allo sviluppo che ha avuto la regione artica in tanti settori, o domini, come vengono definiti oggi (under-water, marittimo, terrestre e spaziale), finora poco o scarsamente considerati, capiamo le crescenti attenzioni di tante Cancellerie ed altrettanti Stati Maggiori. Tutto questo per rafforzare il concetto che l’Artico è ormai una regione da considerare strategica sotto tutti i punti di vista, e non soltanto, come è stato per anni, un laboratorio di collaborazioni scientifiche che non risentivano più di tanto delle “temperature” dei ghiacci e rapporti politici.
In questo contesto, la complementarità di interessi geopolitici e dell’industria privata e pubblica giocherà un ruolo centrale nel determinare il futuro non solo della governance artica ma anche dello sviluppo economico della regione.