Ultimo numero: 60/The race for critical minerals
COP buona, COP cattiva di Michal Meidan 
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Cina

COP buona, COP cattiva 

di Michal Meidan 

Per la Cina la Conferenza di Glasgow non è stata un completo fallimento, ma nemmeno un clamoroso successo. Sarà ricordata per l’assenza di Xi Jinping e l’attenuazione dell’impegno sul carbone, ma anche per la dichiarazione congiunta con gli Stati Uniti  

13 min

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a Cina è il maggior produttore mondiale di gas serra: il suo atteggiamento e la sua posizione sono pertanto determinanti per il successo dei negoziati mondiali sul clima. Per questo, nell’imminenza della COP26 l’attenzione di tutti si è concentrata sulla Cina. Tuttavia, sebbene Pechino probabilmente ritenga che gli obbiettivi climatici che ha annunciato, cioè picco delle emissioni prima del 2030 e neutralità carbonica entro il 2060 (i cosiddetti obbiettivi 30-60), attestino la sua ambizione e volontà di assumere la leadership dei negoziati mondiali sul clima, molto ha pesato l’assenza del presidente Xi Jinping dalla COP26, oltre alla riluttanza di Pechino a impegnarsi a eliminare gradualmente il carbone sul breve termine, situazioni che hanno fortemente condizionato la percezione della conferenza. Il successo della Cina alla COP26 è un’impressione soggettiva, e la sua posizione è risultata ambigua. La Cina si trova infatti a dover gestire una crisi energetica interna che ha indotto all’aumento del consumo di carbone, e al contempo prosegue nella definizione della propria roadmap verso il picco delle emissioni e la decarbonizzazione.  

 

Il divario tra ambizione e realtà

Nel settembre del 2020 Pechino annunciava l’impegno unilaterale a raggiungere il picco di emissioni prima del 2030, modificando l’orizzonte temporale del proprio precedente contributo determinato a livello nazionale (Nationally Determined Contribution, NDC), che prevedeva il picco di emissioni nel 2030 e, soprattutto, annunciava l’impegno a conseguire la neutralità carbonica al 2060. Quest’ultimo era il primo impegno del genere da parte di un paese in via di sviluppo che, per quanto avaro di dettagli, prometteva di trasformare radicalmente il proprio mix energetico, proponendosi di passare dall’attuale dipendenza dai combustibili fossili, che a oggi costituiscono l’80 percento del suo mix energetico, a un 80 percento di combustibili non fossili entro il 2060. Tale annuncio spingeva Giappone e Corea del Sud a dichiarare l’obbiettivo dello zero netto al 2050. Un anno dopo, tuttavia, quando finalmente si è tenuta la COP26, la comunità internazionale ha aumentato le pressioni sulla Cina, chiedendole di darsi ambizioni maggiori. Durante la conferenza, inoltre, la scienza ha spinto ad alzare ancora le aspettative, dando dimostrazione dell’inconfutabile impatto del cambiamento climatico, che ha fatto degli ultimi sette anni i più caldi della storia.  

Pechino ritiene che i propri obbiettivi 30-60 siano già un contributo enorme allo sforzo mondiale. Se la COP26 si fosse tenuta nel 2020 come previsto, tutti avremmo probabilmente elogiato la Cina per l’ambizione dei suoi impegni; tuttavia, dal punto di vista internazionale il mancato ulteriore innalzamento del livello delle ambizioni cinesi e la mancata presentazione di una roadmap più dettagliata verso gli obbiettivi dichiarati sono percepiti come un ostacolo allo sforzo globale.

Tutti i paesi avevano già aggiornato i propri NDC prima della COP26 ed era quindi improbabile che nelle due settimane del vertice qualcuno annunciasse ambizioni ancor più alte; la presidenza britannica ha pertanto optato per una serie di accordi settoriali volti ad arrestare e invertire la deforestazione, a porre fine all’utilizzo del carbone e a controllare le emissioni di metano. Nella seconda settimana del vertice sono stati comunque assunti ulteriori impegni per l’elettrificazione dei veicoli e la graduale eliminazione di petrolio e gas. 

 

Un'adesione selettiva

La Cina ha sottoscritto alcuni degli impegni del vertice, ma non ha aderito a tutti: per esempio, diversamente che nel 2014 ha sottoscritto l’impegno per la deforestazione globale ma non quello (mondiale) sul metano. La delegazione cinese ha comunque annunciato che l’anno prossimo il paese emetterà un piano d’azione nazionale per la riduzione delle emissioni di metano, un passo avanti importante: la questione delle emissioni di metano è strettamente legata al settore cinese del carbone e alle sfide che il paese deve affrontare per eliminare gradualmente questo combustibile. Attualmente il carbone rappresenta il 57 percento del mix energetico della Cina, pertanto la decarbonizzazione del suo settore energetico e della sua economia richiederà parecchio tempo. Inoltre, come in molti altri paesi in via di sviluppo, in Cina l’economia è ancora in crescita e l’urbanizzazione è ancora in corso, quindi il consumo di energia è destinato ad aumentare.

 

la fotoUna donna guida la bici a Pechino, circondata dallo smog 

 

Quasi il 50 percento delle aggiunte di capacità rinnovabile registrate nel 2020 è da attribuirsi alla Cina, ma il paese continua anche ad aggiungere capacità a carbone. Di fatto, la COP26 si è svolta in un momento in cui l’approvvigionamento energetico e l’attività economica in tutta la Cina risentivano di continui blackout elettrici che spingevano il governo ad accelerare la produzione di carbone. Alla luce dell’espansione economica della Cina e del suo crescente fabbisogno energetico, la domanda di carbone e petrolio dovrebbe raggiungere il picco alla metà degli anni 2020, ma si prevede che il consumo di gas del paese continuerà ad aumentare fino al 2030. Dati questi vincoli interni, attualmente Pechino sta progettando la propria roadmap per il 2060 cercando di limitare l’uso del carbone e di ridurre le emissioni, ma al contempo dichiara di preferire prestazioni maggiori a impegni più alti. In sintesi, gli impegni della Cina sono determinati dalla sua agenda nazionale, e anche se Pechino si sta adoperando per lo zero netto, a dettare i suoi impegni internazionali sono gli imperativi a breve termine della sicurezza dell’approvvigionamento energetico e dell’espansione economica. 

Questi sono i motivi che hanno determinato il chiaro posizionamento della Cina tra i paesi in via di sviluppo nei negoziati internazionali sul clima e il suo tentativo di assumere gradualmente il ruolo di leader del sud del mondo. Cina e India sono state ampiamente riprese per il loro ruolo nell’annacquamento del discorso sulla graduale eliminazione del carbone (che anche gli Stati Uniti hanno infine sostenuto), e Pechino ha contestato ai paesi sviluppati di non aver erogato i finanziamenti promessi a sostegno della transizione delle nazioni in via di sviluppo.

 

Come paese in via di sviluppo, la Cina può puntare il dito contro le nazioni più ricche, ma dall’aumento dei finanziamenti per le energie rinnovabili e le tecnologie pulite trae un indubbio vantaggio economico, perché domina la fornitura e la lavorazione della maggior parte delle materie prime necessarie per le tecnologie pulite. Il suo successo alla COP26 è stato pertanto altamente soggettivo: il documento finale è stato il primo a trattare dei combustibili fossili, ma non è forte quanto la presidenza britannica sperava. Analogamente, gli NDC sono stati alzati solo in parte, ma è aumentato il numero dei paesi che hanno assunto l’impegno allo zero netto, e i vari accordi settoriali stipulati potrebbero riuscire a produrre cambiamenti positivi.  

 

È la fine del multilateralismo?

Alla COP26, l’ambiguità della Cina è stata anche evidenziata dalla scelta di assumere impegni unilaterali e non multilaterali. Alla COP21 di Parigi, l’emergere della Cina come paese chiave per il successo del vertice era stato agevolato dalla combinazione della sua forte agenda interna (l’attività economica stava rallentando e l’utilizzo del carbone stava diminuendo) con il coordinamento internazionale, in particolare con gli Stati Uniti. Il coordinamento con Unione europea e Stati Uniti è stato invece limitato prima di Glasgow. Nel contesto delle difficili relazioni tra Stati Uniti e Cina, in particolare durante l’amministrazione Trump, l’impegno 30-60 di Xi Jinping del settembre 2020 è un atto unilaterale, annunciato prima delle presidenziali americane e una settimana dopo un vertice tra Cina e Unione europea in cui Pechino non aveva fatto cenno alla propria intenzione di impegnarsi allo zero netto. Pechino stava segnalando chiaramente che si stava dando da sé un ruolo di primo piano.  

La dichiarazione congiunta di Stati Uniti e Cina, verso la conclusione del vertice, ha dato nuovo slancio ai colloqui finali, pur non diventandone il fattore determinante. Ne è risultato il Patto per il clima di Glasgow, forse imperfetto ma non così negativo come alcuni temevano all’apertura della conferenza. Al vertice sono state concordate regole per i mercati del carbonio a livello mondiale e l’impegno a rafforzare i piani nazionali per il clima con valutazioni periodiche, mantenendo l’obbiettivo chiave di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi Celsius rispetto ai livelli preindustriali. Fatto interessante, alla dichiarazione congiunta di Stati Uniti e Cina si attribuisce il merito di aver rafforzato speranza e fiducia, nonostante essa non presenti nuovi impegni e sostanzialmente non faccia che reiterare punti d’azione unilaterali, stavolta annunciati simultaneamente dalle due parti.  

Gli impegni specifici su metano e deforestazione sono importanti perché i due temi sono propria ora all’ordine del giorno dell’agenda mondiale, ma la COP26 li avrebbe raggiunti anche senza la dichiarazione congiunta di Stati Uniti e Cina. In verità, questa dichiarazione è stata comunque un segnale importante: nonostante la loro rivalità, Stati Uniti e Cina hanno saputo unirsi su una questione di enorme importanza.

 

A differenza dell’annuncio congiunto di Stati Uniti e Cina del 2014, la Dichiarazione di Glasgow, pur non avendo portato Stati Uniti e Cina ad assumere impegni più ambiziosi, ha comunque creato nuove opportunità per scambi regolari tra i due paesi, tra cui l’incontro concordato per la prima metà del 2022 per discutere della misurazione e mitigazione del metano. Inoltre, la decisione di creare un gruppo di lavoro dedicato al potenziamento dell’azione per il clima negli anni 2020 (Working Group on Enhancing Climate Action in the 2020s), che si riunirà regolarmente, contribuirà a stabilire relazioni di lavoro tra Stati Uniti e Cina, dopo tanti anni di scarso impegno e poca fiducia. Resta da vedere con quale periodicità questo gruppo di lavoro si riunirà, come saranno composte le delegazioni partecipanti e quali argomenti tratterà. Questi periodici incontri sul clima potranno portare a quadri normativi e standard ambientali di livello mondiale, a progressi sulle nuove tecnologie come la cattura, utilizzo e stoccaggio del carbonio (Carbon Capture Utilization and Storage, CCUS), e daranno vero impulso al cambiamento climatico. 

 

Tirando le somme, per la Cina la COP26 non è stata un completo fallimento, ma forse nemmeno un clamoroso successo. Dal punto di vista della reputazione internazionale, la COP26 sarà probabilmente ricordata per l’assenza di Xi Jinping e l’attenuazione dell’impegno all’eliminazione graduale del carbone, ma passerà alla storia anche per la dichiarazione congiunta di Stati Uniti e Cina. Gli impegni nazionali della Cina, gli obbiettivi 30-60, la sua adesione all’impegno per la deforestazione e la promessa di pubblicare il proprio piano d’azione per le emissioni di metano sono fatti di estrema importanza per lo sforzo mondiale, ma sono stati in parte oscurati dalla mancanza di dettagli attuativi. La crescente influenza economica e politica della Cina adombra anche il suo essere ancora, per molti aspetti, un paese in via di sviluppo. Tra sfide importanti e grandi ambizioni, per la Cina la COP26 è stata buona ed è stata anche cattiva.