I finanziamenti per il climadi Giulia Sofia Sarno
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IMPEGNO ECONOMICO

I finanziamenti per il clima

di Giulia Sofia Sarno

Il variegato continente africano ha partecipato ai negoziati della COP26 come un fronte coeso e compatto nel chiedere l’aumento degli impegni finanziari internazionali, condizione necessaria per una transizione giusta 

14 min

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urante la pandemia, i paesi ricchi hanno mobilitato risorse senza precedenti e per le economie in via di sviluppo il confronto con la necessità di rispondere all’emergenza climatica che sta devastando il sud del mondo è stato impressionante, soprattutto perché i dati dell’OCSE confermano che le nazioni ricche non hanno rispettato l’impegno di stanziare 100 miliardi di dollaril’anno in finanziamenti per il clima entro il 2020.  

 

Per l’Africa, il sostegno finanziario internazionale è essenziale al fine di fronteggiare le pressanti sfide dei cambiamenti climatici e contestualmente garantire la tempestiva attuazione di piani di sviluppo sostenibile. Alla COP26 i dossier sui finanziamenti hanno avuto la massima priorità per l’Africa, continente caratterizzato da una vulnerabilità unica e particolare ai cambiamenti climatici e da una ridotta capacità di adattamento. 

Secondo la World Meteorological Organization l’Africa si sta riscaldando di più e più velocemente della media del resto del mondo, proprio mentre la sua vulnerabilità geografica è esacerbata da livelli di indebitamento insostenibili, tassi di povertà elevati e da vincoli finanziari e tecnologici. I dati dell’International Monetary Fund mostrano che dal 2000 nella sola Africa sub-sahariana i danni economici dovuti ai cambiamenti climatici generano ogni anno perdite per oltre 520 milioni di dollari. Anche gli sforzi di adattamento saranno molto dispendiosi, con costi per l’Africa sub-sahariana stimati in 30-50 miliardi di dollari l’anno nel prossimo decennio, senza considerare i costi ancor più elevati per i soccorsi in caso di calamità.  

 

Pur nell’omogeneità della sua vulnerabilità climatica, l’Africa è un continente altamente eterogeneo, con paesi tormentati da minacce climatiche diverse e caratterizzati da condizioni socioeconomiche, sistemi energetici e potenziali di transizione energetica anch’essi diversi. Una prima distinzione è quella tra stati produttori di petrolio e gas e stati privi di combustibili fossili; una seconda, importante distinzione è determinata dal deserto del Sahara, che divide la regione settentrionale dall’Africa sub-sahariana. La regione sub-sahariana è caratterizzata da alti tassi di povertà energetica. Secondo l’SDG7 Tracking Report, il 75 percento della popolazione mondiale senza accesso all’elettricità e i 20 paesi con il tasso di accesso più basso si trovano proprio nell’Africa sub-sahariana. Nonostante i significativi progressi nell’accesso all’elettricità compiuti nell’ultimo decennio, il rapido aumento della popolazione ha portato a una crescita del deficit assoluto, con 570 milioni di persone ancora prive di energia elettrica nel 2019. La crisi causata dal Covid-19 potrebbe peggiorare ulteriormente la situazione, portando il numero delle persone senza accesso all’elettricità a 630 milioni entro il 2030. La previsione è che la domanda di elettricità come minimo si quadruplichi entro il 2040: l’accesso universale e sostenibile all’elettricità rimane pertanto un obbiettivo molto impegnativo per i paesi dell’Africa sub-sahariana. 

Nel continente africano è stretto l’intreccio tra la transizione energetica, il cambiamento climatico e le sfide dello sviluppo e la questione centrale è la tipologia delle fonti energetiche che alimenteranno il futuro dell’Africa. A Glasgow, il variegato continente ha partecipato ai negoziati prevalentemente come un fronte coeso e compatto nel chiedere l’aumento degli impegni finanziari, condizione necessaria per una transizione giusta. 

 

Le negoziazioni 

Tra le richieste chiave dell’African Group of Negotiators (AGN), che rappresenta tutti i paesi africani, quella di discutere gli obbiettivi climatici, passati e futuri. L’accordo firmato a Glasgow sollecita le economie sviluppate a mantenere l’impegno ai 100 miliardi di dollari, superando i 79,6 miliardi finora realmente erogati ogni anno, ma non tratta del recupero della differenza per il periodo 2020-2022, in cui si prevede il mancato raggiungimento dell’obiettivo. Quanto all’obbiettivo post 2025, la principale richiesta dei paesi in via di sviluppo è che lo si calcoli sulla base di un’analisi scientifica dei loro bisogni. In una prima bozza dell’accordo, l’AGN e altri soggetti proponevano il target, respinto, di 1,3 migliaia di milioni di dollari l’anno, con una “percentuale importante a titolo di sovvenzione”.  

La specifica sulle sovvenzioni è essenziale. Studi recenti hanno dimostrato che a un livello di debito elevato si associa in genere una maggiore vulnerabilità climatica. L’idea centrale è che l’indebitamento riduce la capacità d’investimento nelle azioni per il clima, situazione cui conseguono un ulteriore indebitamento per la riparazione dei danni e delle perdite dovuti agli eventi avversi e maggiori oneri finanziari portati dall’aumento del rischio climatico nazionale. Questo circolo vizioso si può spezzare solo aumentando la quota di sovvenzioni rispetto a quella dei prestiti per il sostegno finanziario allo sviluppo e all’azione per il clima. Gli ultimi dati mostrano che attualmente il 71 percento dei finanziamenti per il clima è ancora costituito da prestiti. 

Per l’Africa la priorità era non solo la quantità ma anche la qualità dei finanziamenti per il clima. I finanziamenti dovrebbero essere prevedibili, accessibili, basati su sovvenzioni ed erogati con trasparenza. Per l’AGN era prioritario “raggiungere in questa COP un quadro di trasparenza, con regole forti sulla contabilizzazione”, per garantire una rendicontazione rigorosa dei contributi erogati, richiesti e ricevuti. I paesi in via di sviluppo hanno insistito anche per discutere una definizione operativa dei “finanziamenti per il clima”, per chiarire che cosa esattamente conti in vista dell’obiettivo. Sono frequenti problemi quali il doppio conteggio di aiuti allo sviluppo e finanziamenti per il clima, con conseguente riduzione dell’importo delle risorse aggiuntive disponibili per le azioni per il clima. 

Un’altra priorità cruciale per l’AGN è stato il finanziamento di perdite e danni, con riferimento agli inevitabili impatti dei cambiamenti climatici per cui non è possibile alcun adattamento. La richiesta era che si accantonassero nuovi e ulteriori fondi per perdite e danni, opzione respinta dai paesi ricchi. Il Patto di Glasgow prevede comunque un dialogo “per discutere le modalità” di finanziamento.  

Infine, alta priorità aveva anche l’equilibrio tra mitigazione e finanziamento dell’adattamento, tema su cui l’AGN ha invocato la regola del 50-50 percento. Gli ultimi dati dell’OCSE mostrano che i finanziamenti sono fortemente orientati a progetti di mitigazione (64 percento), principalmente perché considerati più redditizi di quelli per l’adattamento. L’AGN, il cui obbiettivo era ottenere una fonte di finanziamento stabile e prevedibile per l’adattamento, è stato il principale fautore della richiesta di allocare all’adattamento parte delle entrate provenienti dai meccanismi del mercato del carbonio (“quota dei proventi” nelle negoziazioni sull’articolo 6). La proposta non è stata accolta, ma l’AGN ha riportato comunque la vittoria, ricercata con determinazione, dei progressi compiuti nella definizione di un “obiettivo globale sull’adattamento”, per monitorare l’andamento e catalizzare i finanziamenti.  

 

la fotoNella foto, pescatori sul fiume Congo. 

 

Una transizione giusta 

A Glasgow il continente africano ha nel complesso confermato il proprio sostegno a una maggiore azione per il clima, mosso dalla sua esperienza diretta del violento impatto dei cambiamenti climatici. Muhammad Buhari, presidente della Nigeria, il maggior produttore africano di petrolio, si è impegnato a raggiungere lo zero netto entro il 2060, ma ha anche chiesto ai paesi ricchi di finanziare progetti per i combustibili di transizione. Da parte loro, i paesi ricchi, tra cui Canada, Danimarca, Stati Uniti e Regno Unito, si sono impegnati a porre fine alla spesa per i combustibili fossili all’estero entro il 2022, con alcune eccezioni. Alcune parti africane hanno percepito come ingiusti gli sforzi per limitare gli investimenti in combustibili fossili nel continente, perché i piani pluridecennali per la transizione all’energia pulita di molti dei paesi ricchi che hanno assunto quest’impegno prevedono il ricorso al gas naturale. 

 

In quanto principali responsabili delle emissioni all’origine dei cambiamenti climatici, i paesi ricchi hanno il dovere di utilizzare la propria capacità per compiere i primi e più significativi passi nelle azioni di mitigazione globale. Ciò consentirebbe alle economie in via di sviluppo di utilizzare una quota equa del bilancio globale del carbonio per non ritardare gli sforzi volti a sradicare la povertà e per rispondere alle necessità imposte dalla crescita della popolazione, dall’urbanizzazione e dall’industrializzazione. La maggior parte dei paesi africani ha aggiornato i propri contributi determinati a livello nazionale (Nationally Determined Contribution, NDC), presentando un piano ambizioso per allineare il proprio percorso di sviluppo all’Accordo di Parigi. Tuttavia, la maggior parte degli NDC africani è subordinata, in tutto o in parte, a un dato livello di sostegno finanziario internazionale. 

 

Pertanto, la misura in cui le economie in via di sviluppo saranno in grado di attuare la transizione energetica e il ritmo del loro graduale eliminare i combustibili fossili dipendono ampiamente dalla volontà politica dei paesi ricchi di mobilitare finanziamenti per il clima. Il mancato rispetto dell’impegno a 100 miliardi di dollari è un problema serio, perché ha minato la fiducia nel sistema finanziario per il clima, che dovrebbe invece provvedere una fonte di finanziamento affidabile e prevedibile, essenziale per rendere la transizione all’energia pulita un’alternativa credibile. 

Alla COP26 è stata lanciata una partnership storica tra Stati Uniti, Francia, Germania e Unione europea, a sostegno della transizione del Sudafrica dal carbone all’energia pulita, con lo stanziamento di 8,5 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni. Un accordo che è un vero spartiacque, come lo ha definito il presidente Ramaphosa: aiuterà infatti il Sudafrica a conseguire l’obiettivo di riduzione delle emissioni previsto dal suo NDC, e rappresenta un modello replicabile a supporto di una transizione giusta per le economie in via di sviluppo.  

Circostanze particolari aprono una finestra di opportunità senza precedenti nell’Africa sub-sahariana. Da un lato, la maggior parte delle reti e dei sistemi energetici della regione sono sottosviluppati, con conseguente, grave deficit di accesso all’elettricità; dall’altro, i paesi dell’area hanno un potenziale di energie rinnovabili enorme, variegato e in gran parte non sfruttato. Ciò crea l’opportunità di sviluppare sistemi energetici largamente basati su fonti energetiche rinnovabili (FER), per un accesso universale. La tempistica dei finanziamenti per il clima è naturalmente essenziale per evitare il vincolo del carbonio.  

 

la fotoNel villaggio Fulani di Hore Mondji, nel sud della Mauritania sulle rive del fiume Senegal, una cooperativa di donne utilizza l’energia solare per il pozzo. 

 

Gli esiti e il percorso verso la Cop27 

Gli esiti della COP26 sono stati deludenti per l’Africa, per la scarsità degli impegni finanziari concreti. Il Patto di Glasgow riconosce comunque l’importanza di questioni che sono cruciali per il continente, e pone le basi per la ripresa del dossier sui finanziamenti chiave in occasione della COP27, per risultati più sostanziali. Gli esiti più positivi si sono avuti sull’adattamento. Si esortano ora le economie sviluppate “almeno a raddoppiare” i finanziamenti per l’adattamento entro il 2025, raggiungendo i 40 miliardi di dollari, importo che pure è solo una frazione del necessario. Si sono inoltre assunti nuovi impegni per il Fondo di adattamento, interamente basato sulle sovvenzioni.  

Come dichiarato da un negoziatore dell’AGN al termine del vertice di Glasgow, è emerso con evidenza che l’Africa “non viene consultata per le grandi decisioni, quelle definitive, quelle che contano”. Il negoziatore ha sostenuto che una possibilità di rafforzare la posizione dell’Africa nei negoziati sul clima delle Nazioni Unite è che l’Unione africana aderisca alla Convenzione -e all’Accordo di Parigi, divenendone membro come l’Unione europea. Inoltre, la partecipazione africana alla conferenza Glasgow è stata seriamente ostacolata dai problemi legati a permessi di viaggio e alloggio e alle vaccinazioni, che hanno ridotto il numero dei delegati partecipanti, rendendo la COP26 una delle meno inclusive delle ultime edizioni dell’evento. 

L’anno prossimo la COP27 di Sharm El-Sheik dovrà affrontare molti dei problemi irrisolti dell’Africa. Il vertice, che si svolgerà proprio nel continente africano, rappresenta una grande opportunità per portare in primo piano le priorità africane e dare all’Africa un ruolo maggiore nella definizione dell’agenda per il clima.