Ultimo numero: 60/The race for critical minerals
Il ruolo di clima ed energia nel post-Brexit di Antony Froggatt  
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Energia Gran Bretagna

Il ruolo di clima ed energia nel post-Brexit 

di Antony Froggatt  

Dopo l’uscita dall’Unione europea, il Regno Unito vuole dimostrare di poter essere leader mondiale su una questione urgente come quella dei cambiamenti climatici. Ma c’è ancora un divario mportante tra le ambizioni e le azioni del paese.

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l 23 giugno 2016 la popolazione del Regno Unito votava, seppur con un margine esiguo, in favore dell’uscita dall’Unione europea. La separazione definitiva si è avuta 1.653 giorni dopo, il 31 dicembre 2020. La Brexit ha avuto e continuerà ad avere effetti profondi su molti aspetti della società britannica, soprattutto per quanto concerne le esportazioni verso l’Unione europea (di prodotti alimentari e agricoli in primis), la circolazione delle persone e la definizione di varie norme e leggi. L’impatto della Brexit è stato tuttavia mascherato, almeno in parte, dalla crisi del Covid-19, e il suo significato economico per il Regno Unito e l’Unione europea andrà disvelandosi solo nei prossimi mesi.  

 

La Cop26 e il posizionamento: la “Global Britain” 

Mentre si preparava ad abbandonare l’Unione europea, il governo del Regno Unito introduceva una nuova narrativa imperniata sul concetto di “Global Britain”, incentrato sul “reinvestire nelle nostre relazioni, farci paladini di un ordine internazionale basato sulle regole e dimostrare che il Regno Unito è aperto verso l’esterno e guarda con fiducia alla scena mondiale”. Secondo le dichiarazioni del ministro degli Esteri Dominic Raab, una volta uscito dall’Unione europea il Regno Unito dovrebbe essere in grado di “commerciare più liberamente” e farsi “paladino delle libertà fondamentali sancite dalla Carta delle Nazioni Unite”. 

Il nuovo approccio del governo britannico e la sua rinnovata fiducia in se stesso emergono con evidente chiarezza dalla recente Integrated Review, che individua nel 2021 l’anno chiave per definire il “tono dell’impegno internazionale del Regno Unito nel decennio appena iniziato”. Nel 2021 il Regno Unito ha assunto la Presidenza del G7, in luglio coospiterà la Global Partnership for Education, e in novembre, a Glasgow, l’anno culminerà con la 26a edizione della Conference of the Parties (COP26) della UN Framework Convention on Climate Change (UNFCCC), che il paese ospiterà in collaborazione con l’Italia. La responsabilità di ospitare la COP26 è di particolare importanza strategica, poiché, come afferma la Review, “la lotta contro il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità sarà la priorità internazionale del Regno Unito, nella COP26 e oltre”, e come osserva l’Economist, “dopo la Brexit, la Gran Bretagna ha l’opportunità di dimostrare di poter essere leader mondiale su una questione così urgente”. 

La COP26 è considerata una prosecuzione della COP21, che ha visto la firma dell’Accordo di Parigi, ed è d’importanza cruciale: l’attesa è che, come minimo, la conferenza aumenti il livello degli impegni di riduzione delle emissioni di carbonio delle diverse nazioni in modo utile ad aumentare la probabilità di un conseguimento collettivo degli obiettivi dell’Accordo di Parigi, e che porti a un aumento dei finanziamenti globali diretti ai paesi più vulnerabili, a sostegno delle attività di adattamento e mitigazione.  

 

la foto Il British Museum con la sua collezione di circa 8 milioni di pezzi testimonia la storia dell'umanità dalle origini a oggi

 

L’assenza di clima ed energia  nelle discussioni pre-Brexit  

In vista del referendum sull’uscita dall’Unione europea, la retorica pubblica si concentrava principalmente sui temi dell’immigrazione, della sovranità nazionale, della capacità di definire le leggi nazionali e sull’economia, e si preoccupava ben poco dell’impatto ambientale della Brexit e della sua possibile influenza sulla capacità del Regno Unito di affrontare il cambiamento climatico. Poco significativo era anche il dibattito sull’impatto dell’uscita dall’Unione europea sul settore energetico, salvo che in Irlanda del Nord, paese che condivide il mercato dell’energia con la Repubblica d’Irlanda. 

Fatto importante, attualmente il settore energetico e le politiche climatiche del Regno Unito sono uniti a quelli dell’Unione europea da un legame complesso determinato dalle regole del mercato condiviso, dagli standard comuni e dalle attività congiunte di ricerca e sviluppo. Sono infatti numerose le istituzioni dell’Unione europea che hanno svolto funzioni di supporto in materia di policy e di supervisione normativa a favore del Regno Unito, oltre a rappresentarlo a livello internazionale in seno a molte organizzazioni e in occasione di un’ampia serie di trattati. Regno Unito e Unione europea sono inoltre collegati l’uno all’altra dalle infrastrutture energetiche, gasdotti e cavi elettrici in particolare: un legame importante, considerando che aumenta la dipendenza del Regno Unito dalle importazioni di energia. Nel complesso, le importazioni di energia ammontano al 35 percento, con il Regno Unito che riceve circa il 7 percento della propria energia e il 12 percento del gas dall’Unione europea: sono livelli molto più alti di quelli dell’inizio del secolo, quando il Regno Unito era un esportatore netto. Infine, il Regno Unito era membro del Mercato interno dell’energia dell’Unione europea (IEM, Internal Energy Market), situazione che facilitava l’efficienza dello scambio e dell’interconnessione energetici.  

 

la fotoIn primo piano il Millennium Bridge e, sullo sfondo, la cattedrale di Saint Paul, Londra

 

L’Iem, gli scambi e l’interconnessione 

A seguito della Brexit il Regno Unito è uscito dal Mercato interno dell’energia dell’Unione europea: per rimanere connesso, il paese dovrà pertanto fare molti cambiamenti. Elettricità e gas continueranno a fluire attraverso i gasdotti e i cavi che collegano la rete energetica del Regno Unito a quelle dell’Europa continentale e della Repubblica d’Irlanda. Gli interconnettori sono parte importante non solo della strategia per la sicurezza dell’approvvigionamento del Regno Unito, ma anche del suo approccio basato sul mercato, perché consentono al paese sistemi di stoccaggio e backup ridotti e contribuiscono alla stabilità dei prezzi. Inoltre, il valore degli interconnettori per il sistema aumenta via via che la decarbonizzazione procede, con un maggior utilizzo di fonti rinnovabili variabili, quali il solare e l’eolico, che consente di far fluire l’energia dalle aree ad alta produzione a quelle ad alta domanda, assicurando l’efficienza del sistema. 

Essendo ormai il Regno Unito fuori dall’IEM (Internal energy market), il regime operativo del flusso dell’energia nel paese è cambiato. In particolare, gli interconnettori elettrici tra Unione europea e Gran Bretagna non sono più coperti dall’accoppiamento dei mercati: ciò significa che il nuovo regime sarà meno efficiente di prima e porterà probabilmente a prezzi lievemente più alti per i consumatori del Regno Unito. Il gas viene importato attraverso i gasdotti fissi che collegano il Regno Unito a Repubblica d’Irlanda, Norvegia, Belgio e Paesi Bassi, ma anche come gas naturale liquefatto (GNL) proveniente da Qatar, Stati Uniti, Russia, Trinidad e Tobago, Algeria. Dal 2008 il Regno Unito ha aumentato in modo importante il proprio utilizzo di GNL, diversificando le opzioni di fornitura e riducendo la dipendenza dalla (lontana) Russia.  

È improbabile che l’uscita dall’Unione europea abbia di per sé un impatto a breve termine sulle fonti energetiche del Regno Unito: piuttosto, il paese procederà a modificare il regime operativo degli interconnettori con i propri vicini. Regno Unito e Unione europea si sono impegnati a ridurre le emissioni sul breve termine e a raggiungere lo zero entro il 2050, il che impone di trasformare il modo di produzione, stoccaggio e utilizzo dell’energia. La decarbonizzazione potrebbe pertanto aumentare l’impatto della Brexit sul settore energetico del Regno Unito, a seconda del suo aspetto finale, e i processi stessi avranno un impatto significativo sull’impegno assunto dal Regno Unito verso il resto del mondo.  

 

la foto Artista di strada si esibisce a Covent Garden 

 

L’impatto della Brexit sul cambiamento climatico  

Uscito dall’Unione europea, il Regno Unito dovrà modificare il proprio approccio al cambiamento climatico, a livello sia nazionale sia internazionale, e in diversi modi, non da ultimo dotandosi di un certo numero di istituzioni sue proprie e nuove. Innanzitutto, durante i negoziati per la Brexit era emerso chiaramente che il Regno Unito avrebbe lasciato il sistema europeo di scambio di quote di emissioni (EU ETS, EU Emissions Trading System), e nel dicembre 2020, qualche giorno prima della fine del periodo di transizione per la Brexit, il paese ha annunciato che avrebbe introdotto un proprio sistema nazionale per lo scambio di quote di emissioni.  

Il Regno Unito ha dato formalmente il via al proprio Emissions Trading System il 1° gennaio 2021, ma senza ancora fissare la tariffa, perché secondo la sua legislazione “l’autorità ETS del Regno Unito deve pubblicare il prezzo del carbonio per lo schema 2021 entro il 30 novembre 2021”. Nell’Energy White Paper del dicembre 2020, il governo britannico dichiara che l’ETS nazionale sarà “il primo sistema di scambio di quote di emissioni nette zero del mondo”, e che “a tempo debito si procederà a consultazioni su come allineare il tetto a una corretta traiettoria verso lo zero”. Quest’ambizione impone di estendere lo schema a coprire tutti i settori dell’economia, situazione che, se realizzata, sarà un’utile lezione per tutti gli altri paesi impegnati a implementare o ampliare un proprio sistema nazionale per lo scambio di quote di emissioni.  

Il sistema del Regno Unito tuttavia non è, almeno per ora, collegato all’EU ETS. In molti auspicavano che il Regno Unito procedesse a collegare il proprio sistema all’EU ETS come fatto dalla Svizzera, e il Regno Unito, in linea di principio, è aperto a tali collegamenti, sia con l’Unione europea sia con altri paesi quali quelli del Nord America, la Corea del Sud e il Giappone: questo potrebbe essere un ulteriore incentivo alla creazione di mercati del carbonio regionali o collegati. 

In secondo luogo, si sta discutendo dell’introduzione di meccanismi di adeguamento del carbonio alla frontiera (CBAM, Carbon Border Adjustment Mechanisms), consistenti nell’applicare un prelievo o una tassa sulle importazioni di beni provenienti dai paesi meno impegnati contro il cambiamento climatico e/o con prezzi del carbonio inferiori; questi meccanismi rappresentano un passo importante nella creazione di condizioni di parità a livello mondiale.  

La Commissione europea ha avanzato nuove proposte legislative sui meccanismi di adeguamento del carbonio alla frontiera, che saranno probabilmente introdotti nell’Unione europea su base settoriale, a partire dai settori con un’impronta di carbonio più importante, quali quelli del cemento e dell’acciaio. Nell’ottobre del 2020 il Regno Unito ha dichiarato di “riconoscere l’importanza di affrontare la questione della rilocalizzazione delle emissioni di CO2. Vi è una serie di approcci potenzialmente utili a tal fine, tra cui l’adeguamento del carbonio alla frontiera. I competenti dipartimenti del governo stanno conducendo ulteriori analisi sulla questione della rilocalizzazione delle emissioni di CO2”. Nel febbraio 2021 è stato riferito che il governo del Regno Unito stava valutando la possibilità di utilizzare la propria presidenza del G7 per “cercare di creare un’alleanza in materia di tassazione del carbonio alla frontiera”. Sarebbe importante sviluppare un CBAM di livello globale che contribuisse al riconoscimento finanziario degli sforzi per la decarbonizzazione della produzione di beni e aumentasse in tal modo l’ambizione di mitigazione. In questo quadro, il Regno Unito potrebbe svolgere un ruolo importante con lo sviluppo di nuovi accordi con i propri partner commerciali. 

 

la fotoTrafalgar Square, Londra

In terzo luogo, nel dicembre 2020 il Regno Unito ha pubblicato il proprio contributo determinato a livello nazionale (NDC, Nationally Determined Contribution) nell’ambito dell’UNFCCC, impegnandosi a ridurre le emissioni di gas serra di almeno il 68 percento rispetto ai livelli del 1990, entro il 2030. Questa è la prima volta che il Regno Unito propone un proprio NDC, in quanto precedentemente l’NDC era da presentarsi all’Unione europea. Il governo del Regno Unito sostiene che il proprio obiettivo per il 2030 è il più ambizioso tra quelli dei paesi sviluppati e di essere tra i primi ad aver inserito nella propria legislazione un obiettivo nazionale di emissioni nette zero entro il 2050. Il Regno Unito è ampiamente considerato un paese dalla politica climatica valida: il Climate Change Act del 2008 è stata la prima legge a vincolare i governi futuri agli obiettivi sul cambiamento climatico, e riflette l’impegno di lunga data del Regno Unito nell’azione per il clima. È comunque generalmente accettato che permanga un divario importante tra l’ambizione e l’azione del Regno Unito, con sfide reali in settori, quali l’edilizia abitativa e i trasporti, in cui ancora si evitano i pur necessari cambiamenti. In questi settori, l’attuazione di politiche e misure di carattere adeguato aumenterebbe la credibilità e avrebbe un’influenza di livello internazionale. 

Infine, nel novembre 2020 il Regno Unito ha lanciato un piano in dieci punti per una rivoluzione industriale verde che dovrebbe auspicabilmente trasformare il paese nel “centro numero uno al mondo per la tecnologia e la finanza verdi”. Il piano prevede azioni sull’eolico offshore, in cui il Regno Unito può davvero rivendicare una posizione di leadership globale, mentre in altre aree, come i veicoli elettrici e l’idrogeno verde, molti altri paesi hanno livelli di produzione e implementazione più avanzati. Il Regno Unito do­vrà quindi accelerare rapidamente i pro­pri piani per poter essere leader a livello globale, in un momento in cui la sua amministrazione pubblica deve prioritariamente occuparsi dei costosi e complessi processi per portare a termine la Brexit e gestire la pandemia da Covid-19. 

Dopo la Brexit, il Regno Unito cerca di accrescere la propria influenza globale, ma ora molti dei metodi storici, quali il commercio delle materie prime e la potenza militare, sono di minor importanza, mentre emerge chiaramente l’importanza mondiale dello sviluppo di sistemi e tecnologie nuovi e della creazione di approcci di soft power capaci di supportare la mitigazione dei cambiamenti climatici e l’adattamento agli stessi. L’attuale governo ne è consapevole e lo dimostra sia ospitando la COP26, sia con i propri piani per le tecnologie a basse emissioni di carbonio. Affrontare il cambiamento climatico non è tuttavia un’azione a breve termine, bensì richiede attenzione e priorità costanti. Molti attendono l’esito della COP26 per valutare se sia effettivamente il cambiamento climatico a plasmare la politica del Regno Unito, e in particolare le sue strategie energetiche e industriali, o se il paese stia invece usando la questione come una mera leva di influenza temporanea nella narrativa post-Brexit.