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UE & USA, unite eppure rivali di Andreas C. Goldthau 
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CLIMA

UE & USA, unite eppure rivali 

di Andreas C. Goldthau 

Con il nuovo presidente americano, riparte la cooperazione sul clima tra le due potenze. Scatta, però, anche la concorrenza per le quote di mercato, la leadership tecnologica, gli investimenti nelle tecnologie e nelle soluzioni a basse emissioni di carbonio.

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I

l giorno stesso del suo insediamento alla Casa Bianca, il presidente Biden ha firmato l’ordine esecutivo che segna il rientro degli Stati Uniti nell’Accordo di Parigi, e pochi giorni dopo ha convocato il Leaders Summit on Climate, ha riunito i rappresentanti delle maggiori economie nel tentativo di combattere i pericoli del cambiamento climatico. L’azione internazionale per il clima sarà una politica distintiva del governo Biden e avrà come paladino John Kerry, inviato presidenziale di alto livello. Il messaggio è forte: gli Stati Uniti sono tornati e s’impegnano nella lotta mondiale al riscaldamento globale, determinati ad assumere la guida di un’azione multilaterale per il clima. Dopo i quattro anni spesi dall’amministrazione Trump a negare la realtà del cambiamento climatico all’insegna dell’isolazionismo, le iniziative del presidente Biden sono state accolte con un grande sospiro di sollievo in tutto il mondo e da un forte apprezzamento nella maggior parte dei paesi europei.  

 

L’Unione europea, per tradizione leader delle azioni sul clima, ripone grandi speranze nella nuova amministrazione statunitense. Il presidente Biden ha fissato per gli Stati Uniti l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050, se non addirittura prima, con una riduzione delle emissioni del 50 percento circa rispetto ai livelli del 2005 entro il 2030. L’Unione europea si è a sua volta impegnata a ridurre le emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55 percento entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, e a raggiungere lo zero netto entro il 2050. La condivisione di obiettivi così ambiziosi e l’allineamento dei programmi climatici nazionali è terreno fertile per l’unione delle forze transatlantiche ai fini della promozione dell’azione globale per il clima.  

 

la fotoLa leadership climatica è indispensabile per lo sviluppo di industrie strategiche a basse emissioni di carbonio capaci di sostenere il reddito e il welfare e creare occupazione.

 

La Cop26 di novembre: un’opportunità per rinnovare le relazioni 

Una buona occasione per i rinnovati sforzi transatlantici sarà l’imminente COP26, la conferenza annuale per i negoziati sul clima che si terrà a Glasgow nel contesto della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC, United Nations Framework Convention on Climate Change). Nella COP26 la comunità globale s’impegnerà ad aggiornare i piani d’azione nazionali per il clima e a innalzare l’ambizione internazionale di decarbonizzazione. Insieme, Unione europea e Stati Uniti hanno buone possibilità di forgiare un accordo globale che impegni i leader internazionali a percorsi di decarbonizzazione a lungo termine, sostenendo al contempo le ambizioni sul clima con finanziamenti sufficienti diretti ai paesi in via di sviluppo. 

La condivisione di obiettivi comuni non comporta tuttavia necessariamente consenso unanime su come li si debba raggiungere. E infatti, l’approccio dell’Unione europea alla decarbonizzazione è decisamente diverso da quello degli Stati Uniti. Il Green Deal dell’Unione europea, il piano generale per la decarbonizzazione, si basa sull’ETS (Emissions Trading System), il sistema di scambio delle quote di carbonio. L’ETS impone sulle emissioni un prezzo che incentiva le aziende a ridurre l’intensità di carbonio delle proprie attività produttive; l’Unione europea si propone di realizzare la completa decarbonizzare di tutti i settori economici entro il 2050 combinando chiari segnali di prezzo e sforzi politici mirati che spaziano dall’agricoltura alla mobilità. L’approccio degli Stati Uniti combina invece gli stimoli finanziari (verdi), la regolamentazione e il sostegno statale per l’avanzamento del progresso tecnologico nel campo delle energie rinnovabili, dello stoccaggio dell’energia e delle apparecchiature pulite. La crescita del settore finanziario del paese è inoltre vista come determinante per la definizione dei prezzi correlati al rischio climatico, orientando con le forze di mercato il denaro dagli investimenti in attività ad alta intensità di carbonio (brown) a favore degli investimenti verdi. La situazione di per sé non sorprende né appare problematica: la differenza negli approcci di policy rispecchia la diversa organizzazione delle relazioni stato-mercato sulle due sponde dell’Atlantico. Il problema è che queste differenze potrebbero generare tensioni. 

 

la foto Pannelli solari visti dall'alto, Florida, Stati Uniti.

 

Diversi approcci di policy, possibili tensioni all’orizzonte 

Un motivo di possibili tensioni è che la tariffazione del carbonio comporta costi aggiuntivi per le industrie nazionali: le aziende europee potrebbero pertanto trovarsi a dover affrontare un aumento della pressione concorrenziale di beni e servizi importati da paesi o regioni dagli obiettivi climatici meno rigorosi. Ai prodotti della propria nazione i consumatori potrebbero preferire quelli esteri, più economici ma a maggior intensità di carbonio, e la produzione potrebbe spostarsi al di fuori dell’Unione europea per evitare oneri e costi aggiuntivi. Si teme, insomma, che l’ambizione climatica possa finire per deindustrializzare l’Europa, oltre a favorire la rilocalizzazione delle emissioni di carbonio. 

La risposta dell’Unione europea al problema sta nel creare parità di condizioni tra prodotti nazionali e prodotti esteri attraverso il meccanismo di adeguamento di carbonio alla frontiera (CBAM, carbon border adjustment mechanism). I beni con un contenuto di carbonio più elevato rispetto agli equivalenti europei, alla frontiera saranno soggetti a una tassa volta a disincentivare le aziende europee dal produrre al di fuori dell’Unione e a disincentivare i consumatori europei dal preferire il prodotto importato al prodotto nazionale. Non è infatti improbabile che il meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera vada a integrare il Green Deal europeo e a proteggere l’agenda dell’Unione europea per la decarbonizzazione dai rischi rappresentati dai ritardatari del clima, le cui esportazioni già vantano costi inferiori e, quindi, un vantaggio competitivo. 

 

Ed è proprio qui che la questione potrebbe presto farsi spinosa. Per l’Unione europea ha senso collegare le politiche commerciali a quelle climatiche, ma ad altri questo collegamento appare discriminatorio. La Cina ha già manifestato le­­ proprie preoccupazioni circa i piani dell’Europa, ventilando una possibile azione presso la World Trade Organization (WTO) nel caso l’Unione europea finisse effettivamente per imporre tariffe sulle emissioni di carbonio delle importazioni cinesi. Anche gli Stati Uniti hanno espresso chiare riserve: nella sua visita del marzo 2021, John Kerry, l’inviato USA per il clima, ha definito il meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera una misura di ultima istanza, manifestando preoccupazione per una possibile rapida azione dell’Unione europea in tal senso. Tra i motivi dello scetticismo dell’amministrazione Biden vi è il fatto che gli Stati Uniti non hanno un mercato delle emissioni di carbonio di livello nazionale, cosa che sarebbe invece necessaria perché Stati Uniti e Unione Europea potessero stabilire un’equivalenza tra i costi incrementali per il clima gravanti sulle loro rispettive aziende ed economie nazionali. In mancanza di un meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera accuratamente progettato e sostenuto da azioni diplomatiche mirate da parte dell’Unione europea, un prelievo unilaterale sul carbonio potrebbe ben suscitare controversie commerciali a livello transatlantico, e proprio del tipo di quelle che l’Europa sperava di essersi lasciata alle spalle con la fine dell’amministrazione Trump.  

E c’è anche un altro elemento da considerare, nell’azione transatlantica per il clima. Sia per l’Unione europea sia per gli Stati Uniti, le ambizioni climatiche vanno ben oltre l’obiettivo di fermare il riscaldamento globale, e comportano di fatto programmi di industrializzazione verde massiva. Entrambe le sponde dell’Atlantico condividono l’idea che la leadership climatica sia indispensabile per lo sviluppo di industrie strategiche a basse emissioni di carbonio capaci di sostenere il reddito imponibile, i sistemi di previdenza sociale e, in generale, il progresso dell’economia. E su entrambe le sponde dell’Atlantico è forte l’imperativo politico di far funzionare le policy per l’industrializzazione verde. “Building Back Better”, slogan chiave della campagna di Biden, è in sostanza una promessa fondamentale: generare opportunità, posti di lavoro e benessere durante la transizione verso un modello economico a basse emissioni di carbonio, anche per gli operai che erano stati catturati dalla campagna di Trump e che la squadra di Biden intende conquistare, e si auspica che la spesa pubblica in energia verde, infrastrutture sostenibili e tecnologia climatica traduca questa promessa in realtà. In modo analogo, il Green Deal dell’Unione europea non rappresenta solo il “momento ‘uomo sulla luna’ per l’Europa”, pensato per rendere il Continente, fortemente industrializzato, a prova di futuro per l’era post-carbonio, ma è anche teso a offrire un futuro promettente a chi nella transizione rischia di perdere, per porre un freno alle tendenze populiste dilaganti in molte parti d’Europa.

 

la fotoVeicolo elettrico autonomo alla stazione di ricarica, Babcock Ranch, Florida.

 

Una lotta comune, ma per Biden sarà sempre “America First” 

In breve, nella corsa verde bisogna assolutamente vincere. Europa e Stati Uniti sono pertanto in concorrenza tra loro per le quote di mercato, la leadership tecnologica, gli investimenti nelle tecnologie per il clima e nelle soluzioni a basse emissioni di carbonio. L’attuale amministrazione statunitense ha rispetto per il clima, ma continuerà a mettere l’America al primo posto, come già fece Trump. La battaglia per la leadership economica in un mondo a basse emissioni di carbonio sarà feroce e si combatterà su più fronti, dagli standard industriali globali, alle regole per gli investimenti sostenibili, ai progetti per la tassazione del carbonio alla frontiera. Per il clima questa non è la peggiore delle notizie, fintanto che l’emergente concorrenza transatlantica, e, di fatto, la concorrenza globale continueranno a far avanzare la tecnologia e ad abbassare i costi delle soluzioni a basse emissioni di carbonio. Per l’Unione europea, tuttavia, tutto questo implica la necessità che le relazioni transatlantiche su energia e clima trovino il giusto equilibrio tra la collaborazione (dove possibile) nella lotta ai pericoli dei cambiamenti climatici e la promozione attenta della causa degli interessi europei.