Ultimo numero: 60/The race for critical minerals
Ritorno alla diplomazia economicadi Mario Sechi
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Africa

Ritorno alla diplomazia economica

di Mario Sechi

L’Africa è la risposta a una miriade di problemi emersi ed emergenti, ma occorre tornare a leggere i libri della scuola realista, cercare dialogo e cooperazione sincera

20 min

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’Africa non è un deposito di materie prime dell’Occidente, è un luogo che va compreso, studiato, rispettato

V?iviamo in un tempo di guerra. Ci siamo interrogati su come dare un senso a quello che sta accadendo in Ucraina, l’epicentro di un attrito di forze globali in piena azione. La scelta più facile (e scontata) era quella di puntare il nostro faro nel cuore del conflitto, in quello spazio che si chiama Eurasia, luogo reale e immaginario. Ma il rischio sul piano del racconto era quello di restare inchiodati inesorabilmente all’oggi e soprattutto di essere superati dagli eventi e restare “dietro la curva”.

 

Abbiamo deciso di prendere un’altra strada, quella del domani. Il futuro prossimo lo abbiamo trovato in un “luogo naturale” (che non a caso è anche quello delle nostre origini, andate a vedere la storia di Lucy, guardate la toccante scena del film di Luc Besson con Scarlett Johansson quando la protagonista incontra in un viaggio nel tempo la mamma di noi tutti, Lucy, una donna di 3,18 milioni di anni fa) dove c’è vita e materie prime, nuove nascite e un corso della storia ancora tutto da scrivere, non declinante e in espansione: l’Africa.

la fotoLa civiltà contemporanea ha “dimenticato” la potenza della demografia... 

Fin dall’emersione del problema filosofico dei tempi moderni, “La questione della tecnica” (Martin Heidegger, 1953), la civiltà contemporanea ha “dimenticato” la potenza della demografia e della natura. Pensando di averle finalmente assoggettate (con la tecnica e una dose sconfinata di hybris mortale), ne ha perso di vista la rotta fino a quando il più terribile degli eventi nella storia dell’uomo - la guerra, nel cuore dell’Europa - non ha mostrato il vuoto che si era aperto nella nostra visione del mondo. La guerra di aggressione della Russia, l’invasione dell’Ucraina, il Big Bang dell’ordine di Yalta, hanno riportato all’anno zero tutti pezzi sulla scacchiera: come possiamo costruire lo spazio vitale dell’Europa (sicurezza, energia) senza dipendere in maniera quasi esclusiva dalla Russia che è solo la punta dell’iceberg di un “resto del mondo” in conflitto con l’Occidente?

 

Improvvisamente tutti gli angeli sono caduti a terra, le illusioni che avevamo edificato sulla carta sono crollate e lo sguardo si è posato (di nuovo) sull’Africa, ma questo stato di emergenza ci obbliga a fare una riflessione ampia - e sincera - sul nostro rapporto con il continente più grande e più dimenticato della Terra. Questo numero di We è un’esplorazione di questo tema. Lo facciamo partendo dall’oggetto della nostra missione, l’energia, e lascerò che nelle pagine seguenti siano i nostri eccezionali collaboratori a raccontarlo in tutti i suoi aspetti. Il mio compito qui è invece quello di provare a tracciare una possibile rotta del nostro pensiero rispetto a questo immenso spazio che non può essere semplicemente un “serbatoio” da cui attingere risorse, non è una questione solo di accordi commerciali, di esplorazione, di investimenti, di ingegneria e logistica. Siamo su un piano più alto.

 

Il sistema di relazioni e alleanze delle nazioni africane è profondamente cambiato nel corso degli ultimi decenni. Anche questo è passato sotto coperta, come se non fosse tutto alla luce del sole. Sorprendente è la sorpresa di taluni e ancor più lo è la domanda: come è possibile? Certo che è possibile. Nel marzo scorso 17 paesi africani si sono astenuti dalla risoluzione che condannava la guerra della Russia in Ucraina, altri otto voti non sono stati registrati. E chi ha appoggiato il documento - tranne il Kenya - non ha poi spiegato perché lo ha fatto, silenzio diplomatico, ma sempre silenzio. Stati Uniti e Europa hanno espresso disappunto per il voto, ma è proprio questo episodio che ha fatto emergere il problema delle relazioni dell’Occidente con l’Africa. L’ambasciatrice americana Linda Thomas-Greenfield ha detto che gli Stati Uniti devono “fare un lavoro supplementare per aiutare questi paesi a capire l’impatto della guerra di aggressione della Russia in Ucraina”. Aiutare? Capire? Lavoro supplementare? Come ha chiosato Ebenezer Obadare del Council on Foreign Relations “non solo sa di arroganza, ma dipinge un quadro dei paesi africani come adolescenti morali che richiedono la supervisione occidentale per capire e fare ciò che è giusto”. Traduzione del vostro cronista: guardare il prossimo dall’alto in basso. Non funziona.

la foto...e della natura 

Tra i fattori di cui bisogna tenere conto nell’analisi sulla posizione dei paesi africani rispetto alla guerra in Ucraina, c’è un elemento di grande importanza: l’astensione non è sempre e soltanto una questione di legami con la Russia, per molti vale il principio espresso nel Movimento dei Non Allineati (ne fanno parte quasi tutti i paesi) della non-interferenza negli affari interni di uno Stato sovrano. Attenzione: è lo stesso principio che ha adottato la Cina (e viene evocato da Pechino per respingere ogni critica sul caso Taiwan), osservatore all’interno del Movimento e alleato naturale dei paesi in via di sviluppo. I comportamenti a volte sono irrazionali, ma nella maggior parte dei casi hanno una logica. Basta conoscere, sapere, osservare e non scambiare i propri desideri per la realtà.

 

La realtà è che il primo “decoupling” della contemporaneità l’Occidente lo ha fatto nei confronti dell’Africa almeno tre decenni fa. Il mito dell’autosufficienza energetica americana si è scontrato con i fatti geopolitici di un mondo che ha voltato pagina e ha deciso di interrompere il gioco, portare via la palla e vedere che succede. Larry Fink, il presidente del fondo BlackRock, il più grande investitore del mondo, ha detto bene: “La globalizzazione così come la conosciamo è finita”. A che serve avere la ‘tua’ benzina se poi non hai il microchip che fa funzionare la macchina? Mentre scrivo questo pezzo la Casa Bianca anticipa che il dato dell’inflazione di marzo sarà “straordinariamente alto” (+8,5 percento, il massimo dal 1981), c’è un problema energetico mondiale che era già potente prima della guerra, al primo posto nell’agenda dei governi occidentali.

 

L’Africa è certamente la risposta (non l’unica, ma senza questo tassello del mosaico tutto diventa quasi impossibile da risolvere in tempi medi) a una miriade di problemi emersi e emergenti, ma occorre tornare a leggere i libri della scuola realista (consiglio vivamente le memorie di Henry Kissinger, a cominciare da “Gli anni della Casa Bianca”, opera monumentale e di enorme attualità), cercare dialogo e cooperazione sincera, fare un bagno d’umiltà. Richiamo su questo punto l’esperienza storica di Eni che, fin dalla sua fondazione, con Enrico Mattei aveva dispiegato la diplomazia economica come elemento chiave dello sviluppo dell’Italia e dei partner africani, un elemento di politica estera nell’area del Mediterraneo e del Medio Oriente. Opera che continua, portata avanti in questi giorni con il governo Draghi in una serie di accordi per dare all’Italia un’alternativa alle forniture di gas dalla Russia. Tutto questo è possibile solo grazie a una dote che si chiama credibilità. Non si acquista pronto cassa, si costruisce e consolida nella longue durée e non prescinde neppure dalle persone che la portano avanti. Non si fa con una macchina, non c’è la tecnica a sostituire le relazioni umane, la base del confronto e del rispetto per la cultura dell’altro.

 

Basta guardare gli accordi militari della Russia nel continente africano (sono oltre venti) per rendersi conto dell’impatto di questo disinteresse e pregiudizio storico prima degli Stati Uniti e poi dell’Europa. Sul piano economico, la penetrazione della Cina è l’altro elemento che ha cambiato lo scenario africano (e il nostro) negli ultimi decenni. I due punti terminali alla fine si sono saldati, Mosca e Pechino oggi agiscono spesso in tacito coordinamento nei vari teatri. La Francia ha ritirato le truppe dal Mali, un altro segnale che dobbiamo accoppiare al futuro della missione per il controllo dell’area del Sahel. A Pechino e Mosca dobbiamo aggiungere la presenza della Turchia in Nord Africa, un attore con una grande cultura e storia imperiale in cerca di spazi di influenza, non solo nel Mediterraneo orientale, come testimonia il ruolo chiave di Ankara in Libia.

 

Se tu abbandoni il terreno, qualcun altro lo occupa, sta accadendo in Afghanistan dopo il ritiro americano, succede in Africa da tempo. Le amministrazioni americane hanno sempre pensato a altri teatri, il Medio Oriente, la Russia, la Cina, il loro focus politico era sempre altrove, gli ultimi cinque presidenti (Bill Clinton, George Bush jr., Barack Obama, Donald Trump e Joe Biden) non avevano (hanno) un’agenda per il continente e Trump è stato l’unico dai tempi di Ronald Reagan a non fare mai un viaggio in Africa.

 

Titolo letto su Foreign Affairs di qualche tempo fa: “Beijing Isn’t Just Building Roads—It’s Making Friends”, e se Pechino non costruisce solo strade, ma si sta facendo degli amici, allora bisogna chiedersi perché e dopo aver trovato la risposta (non è difficile) cominciare a interrogarsi su quanto abbiamo fatto e stiamo facendo noi. Il mondo sta virando verso altri equilibri (e squilibri), serve una correzione di rotta dell’Occidente, prima di tutto nel pensiero, nella cultura, nell’idea filosofica stessa di Essere nel mondo (il come e perché starci, con quale missione).

 

Nel 2004, subito dopo l’invasione dell’Iraq, mentre ero con la Nato nella base navale di Norfolk, in Virginia, mi fu consigliato un libro: “The Pentagon’s New Map”, di Thomas P.M. Barnett, un analista del Naval War College che aveva ideato una nuova teoria visualizzata in una mappa dove il mondo era (è) diviso in due: il “Nucleo funzionante”, legato dall’interdipendenza economica, e il “Gap non integrato”, senza leadership stabili, regole comuni, privo del collante del commercio internazionale. Il “Nucleo funzionante” a sua volta era diviso tra il “Vecchio Nucleo” (Nord America, Europa, Giappone, Australia) e il “Nuovo Nucleo” (Cina, India, Sud Africa, Brasile, Argentina, Cile e Russia). Quali erano le aree disconnesse? Il Medio Oriente, l’Asia meridionale (con l’esclusione dell’India), quasi tutta l’Africa, il Sud-Est asiatico e il Nord-Ovest del Sud America. Vent’anni dopo, quella mappa presenta le stesse aree di instabilità, non connesse o non pienamente integrate nel processo di globalizzazione. Vent’anni dopo, gli Stati Uniti si sono ritirati dall’Afghanistan, la Russia e la Cina hanno subito colmato il vuoto in Asia centrale, il Medio Oriente parla tanto russo e turco, l’Africa è diventata una scacchiera di Pechino e Mosca. Se non è il declino dell’Occidente, certamente è il suo costante ritiro. L’Europa? Non pervenuta. A questo dovremmo aggiungere quelle che Henry Kissinger nel suo “World Order” definisce zone di non-governance, Stati che hanno una sovranità ma non riescono ad esercitarla sull’intero territorio, sono un puzzle dell’insicurezza. Tra questi ci sono la Siria, l’Iraq, la Libia, il Libano, il Mali, il Sudan, la Somalia, e attenzione all’evoluzione del Pakistan. L’Africa domina questo quadro di alta instabilità.

 

Quanto conta la debolezza del fattore religioso (come sistema di cultura, radice e baricentro dell’uomo, leggere “Le note intorno alla cultura” di T.S. Eliot) in questa nostra storia? Tantissimo, l’altro elemento dimenticato è “il sacro” assente, quel tramonto lento e inesorabile che René Girard ricorda così: “La crisi delle religioni è una delle caratteristiche fondamentali del nostro tempo. Per rintracciarne l’inizio occorre risalire alla prima unificazione del pianeta, andare all’epoca delle grandi scoperte geografiche, e forse ancora più indietro, alla passione che ha sempre spinto l’intelligenza umana verso i ‘confronti’”. Ecco dove sta “il sacro” smarrito, non è una questione liturgica, è la semplice verità del fatto che abbiamo smesso di confrontarci con il prossimo.

 

Accantonato il problema di Dio (il timore dell’abisso, la propria coscienza), abbiamo coltivato in maniera estensiva l’idea dell’Ho­mo Deus, ora abbiamo fatto un altro balzo (indietro), siamo passati da un sistema di pensiero homo-centrico (quante illusioni) alla coltura intensiva con potenti fertilizzanti del pensiero data-centrico per cui il divino viaggia sulla fibra ottica del sistema nervoso dell’intelligenza artificiale, è il fenomeno che Yuval Noha Harari chiama “dataismo”. Ricorderete tutti il periodo in cui i gurutech di ogni latitudine ci parlavano con tono messianico del Big Data (che non casualmente era l’eco del ‘Big Brother’ di George Orwell) e tutto era risolto con il numero, un’ossessione squadernata in un libro di Paolo Zellini intitolato “La dittatura del calcolo”. Tutti giù per terra, di nuovo, anche questo mito di una nuova era dell’umanità fondata sul server è caduto, il network della Silicon Valley è apparso scollegato dalla realtà, la venerazione del totem della macchina è evaporata, abbiamo appreso che non si vive di chat e algoritmi, Instagram non va in trincea, Facebook non è alla pompa di benzina, Twitter non coltiva campi di grano e lo smartphone non serve per riscaldare le nostre case nelle sere d’inverno. È indubbiamente un’era di grandi scoperte.

 

È quello che qualche sera fa, in una discussione con Francesco Gattei (Cfo di Eni), abbiamo definito giocando con le metafore il conflitto tra molecola ed elettrone. Vince sempre la molecola. E ora tutti la cercano, la molecola. Non solo idrocarburi e materiali chiave della manifattura, siamo arrivati in poche settimane alla crisi del grano, della soia, dell’olio di semi di girasole, dei fosfati che servono per i fertilizzanti, l’indice dei beni alimentari elaborato dalle Nazioni Unite (il Fao Food Price Index) ha toccato il massimo storico, i prezzi di carne, cereali, latticini, oli vegetali e zucchero sono al loro livello più alto di sempre. Se il carrello della spesa diventa un problema per i ceti dell’Occidente opulento, provate a immaginare cosa significa tutto questo per i paesi poveri o in via di sviluppo. Nel 2020, il mercato dei cereali provenienti da Russia e Ucraina valeva 6,9 miliardi di dollari, le forniture si sono interrotte, a questo va aggiunto il bisogno di fertilizzanti inorganici che venivano da Kiev e Mosca: senza questi ci saranno raccolti più poveri in un continente dove oltre il 20 percento della popolazione, pari a 280 milioni di persone, è malnutrito. L’insicurezza alimentare in tutta l’Africa è una realtà.

 

Ho letto un report del Dipartimento americano dell’agricoltura che spiegava come il prezzo stabile del riso in questo scenario di decollo a razzo dei prezzi cambierà l’alimentazione in alcuni paesi, siamo alle fondamenta dell’esistenza, il cibo è cultura, un fatto profondo, lascia segni nell’anima, è una macchina di ricordi ben più potente di qualsiasi super computer. E l’Africa in questa partita a scacchi con la morte (Ingmar Bergman, ‘Il Settimo Sigillo’) è un problema di ulteriore instabilità, le primavere arabe del 2011 cominciarono con la rivolta del pane in Tunisia. Tutto è visibile, connesso e disconnesso.

 

Va detto con chiarezza: l’Africa non è un deposito di materie prime (dagli idrocarburi alle terre rare) dell’Occidente, è un luogo che va compreso, studiato, rispettato. Con Claudio Descalzi spesso tocchiamo il tema e ogni volta colgo nelle sue parole un soffio di savana alberata che è più di una semplice speranza, perché Claudio in Africa ha scoperto il giacimento più grande: l’amore. Non solo quello della famiglia che dà un senso alla vita di ognuno di noi, ma una dimensione dell’esistenza dove splendore e miseria sono un’occasione per pensare al nostro modello di sviluppo che sembra incapace di fermare la crescente diseguaglianza (leggere sul tema gli illuminanti studi dell’economista Branko Milanovic) che esportiamo in gran quantità con più efficacia di quanto siamo riusciti a fare con la democrazia.

 

Il tempo è un mulino che con pazienza trita gli eventi e li trasforma in fatto storico, ma nella frazione del calendario si attende la quiete dopo la tempesta, lo spazio si curva e sul campo emergono vincitori e vinti. E anche questo è un pensiero del mondo classico che ha un problema con la contemporaneità: siamo trasportati dal fiume in piena del confronto tra Grandi Potenze, hanno tutte l’arma nucleare e la scoperta finale è quella del super computer nel film “War Games”: non vince nessuno.