Ultimo numero: 60/The race for critical minerals
Geopolitica rinnovabile di Marta Dassu'
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Transizione

Geopolitica rinnovabile 

di Marta Dassu'

La transizione energetica ha accentuato la competizione su un terreno in cui la Cina ha un vantaggio netto sul fronte della tecnologia, gli USA investono in modo massiccio e l’UE rivendica una leadership senza avere chiare alcune conseguenze.

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a geopolitica dei combustibili fossili è un tema tradizionale di analisi. Per lunga parte del XX secolo, il potere degli Stati è dipeso anche dal loro accesso a petrolio e gas. E continuerà ad essere in parte così, visto che il petrolio e soprattutto il gas manterranno una posizione preminente nel mix energetico globale ancora per alcuni decenni. Alla geopolitica dei combustili fossili si aggiungerà però il tema della geopolitica delle energie rinnovabili, come effetto di una transizione che mira a ridurre l’impatto ambientale dei sistemi energetici ma che avrà anche un effetto sugli equilibri internazionali.  

 

Nel suo ultimo libro “The New Map”, Daniel Yergin descrive le trasformazioni avvenute negli ultimi anni nel mercato energetico internazionale, e soprattutto le conseguenze a lungo termine della rivoluzione shale americana. Fra il 2008 e il 2020, la produzione di petrolio degli Stati Uniti è triplicata, facendo dell’America il principale produttore al mondo, prima di Russia e Arabia Saudita. Per quanto gli Stati Uniti importino ancora dal Medio Oriente notevoli quantità di petrolio, è indubbio che hanno rafforzato così la propria autonomia energetica, anche se resta illusorio il “dominio energetico” teorizzato da Donald Trump. Parallelamente, si sono indeboliti i produttori tradizionali del Golfo, con il passaggio da una fase dominata dalla percezione della scarsità di petrolio ad una fase segnata, invece, dall’abbondanza di offerta e dalla riduzione del prezzo.

La produzione americana di gas naturale ha messo in difficoltà anche la Russia, complicandone le relazioni con l’Europa e spingendo Mosca a nuovi accordi energetici con la Cina. In tutto questo, il potere contrattuale dell’OPEC è stato ridimensionato, mentre le scelte decisive per i mercati petroliferi vengono ormai largamente dettate da Stati Uniti, Arabia Saudita e Russia. Ad un livello più profondo, però, il mercato energetico internazionale è in una fase di cambiamento strutturale. Negli ultimi cinquant’anni, il peso delle fonti di energia a basse emissioni di carbonio nel mix energetico globale è raddoppiato, e se oggi rappresenta ancora poco più del 15 percento del totale, il trend è in crescita, soprattutto nelle economie avanzate: da qui al 2050, ad esempio, l’Agenzia americana per l’Energia stima un raddoppio, dal 21 al 45 percento, del peso delle rinnovabili nel mix energetico degli Stati Uniti. La recessione indotta dalla pandemia ha accelerato le tendenze in atto: nel 2020, mentre la domanda globale di petrolio si riduceva del 8,8 percento e quella di carbone del 5 percento, il settore delle energie rinnovabili si espandeva con l’aggiunta di un numero record di 200 gigawattora. 

 

Nello scenario post-Covid, Stati Uniti ed Europa sono orientati a perseguire la strada della transizione; il loro obiettivo dichiarato è quello di raggiungere la neutralità climatica – zero emissioni nette di carbonio – nel 2050. L’amministrazione Biden, che ha riportato l’America all’interno del quadro degli Accordi di Parigi, ha messo a punto un piano da 2.000 miliardi di dollari di investimenti nelle energie pulite nei prossimi quattro anni. Da parte dell’UE - continente che aspira a una leadership nella transizione energetica dopo avere varato il Green Deal - gli investimenti nel settore rappresentano un’ampia fetta dei fondi allocati con il Next Generation EU. Secondo le previsioni di Bloomberg, l’espansione delle rinnovabili segnerà i prossimi tre decenni: dei 1.500 miliardi che verranno investiti nel settore energetico, l’80 percento circa verrà assorbito da energie pulite e da batterie elettriche. 

La transizione avrà importanti conseguenze geopolitiche, a partire da un’evoluzione dei rapporti tra l’Occidente e la Cina, che detiene il controllo di molte delle materie prime essenziali per lo sviluppo delle “clean tec”. L’ascesa delle energie rinnovabili tenderà anche ad incidere sull’assetto interno dei cosiddetti “Stati rentier”, i regimi che si reggono sulla rendita energetica, con effetti sui rapporti tra l’Unione europea, da un lato, e la Russia e il Medio Oriente dall’altro. Gli stessi rapporti transatlantici sull’agenda energetica ne verranno investiti, con Washington e Bruxelles impegnate a conciliare gli obiettivi della sostenibilità con gli interessi della propria competitività industriale. 

 

Gli Usa e il clima come sicurezza nazionale 

La nuova Amministrazione americana considera il cambiamento climatico un problema di sicurezza nazionale: “la prossima pandemia”, l’ha definita Joe Biden, riprendendo le previsioni di Bill Gates. Non è quindi un caso che John Kerry, l’inviato speciale del presidente USA per il Clima, sieda anche nel National Security Council e abbia scelto la Conferenza sulla sicurezza di Monaco, lo scorso febbraio, per la sua prima apparizione internazionale. Il cambiamento climatico, con i fenomeni meteorologici estremi ad esso connessi, rappresenta nella visione degli Stati Uniti una fonte di rischio e di costo per la propria popolazione; e al tempo stesso una causa di instabilità sistemica internazionale, accelerando la competizione per risorse naturali scarse, determinando un aumento dei movimenti migratori e moltiplicando le possibilità di conflitti locali e regionali.  

Ma non è soltanto l’aspetto strategico che spiega il nuovo paradigma securitario di Washington rispetto al cambiamento climatico; esiste anche una connessione con la competitività del sistema industriale americano. L’accento è sulla competizione tecnologica. Le tecnologie chiave per la transizione energetica sono infatti considerate un fattore essenziale per la competitività degli USA nel XXI secolo, proprio come l’energia fossile lo è stata per il XX secolo. Negli ultimi dieci anni, gli Stati Uniti hanno investito in energie rinnovabili circa 3000 miliardi di dollari, triplicando la capacità eolica installata e aumentando in modo molto rilevante la quota di energia solare. È di inizio aprile l’annuncio da parte di Joe Biden di un ambizioso piano per l’industria eolica offshore sulle coste dell’Atlantico.  

L’economia dell’energia pulita è centrata sulla tecnologia e sull’efficienza della regolazione mentre quella dell’energia fossile è basata essenzialmente sulla disponibilità di asset sotto forma di risorse naturali. È vero che tecnologie avanzate sono state applicate al patrimonio delle risorse fossili – la shale revolution lo testimonia – ma si tratta di due modelli economici molto diversi. Il futuro della transizione energetica dipenderà da una grande coalizione fra governo e business (inclusa Wall Street per la parte di green finance). Lo sviluppo dell’industria nucleare, che fu sostenuta dagli sforzi governativi in campo militare, offre un precedente in questo senso.   

La sfida, naturalmente, è di riuscire a garantire che il nuovo mix energetico sia sostenibile in termini economici e sociali. Sul breve periodo, Biden potrà sfruttare la forte ripresa dell’economia americana dopo la pandemia; ma sul medio termine il saldo della riconversione energetica in termini di posti di lavoro dovrà essere positivo, se la nuova Amministrazione americana non vorrà pagare un prezzo politico.  

La decarbonizzazione come priorità domestica influenzerà anche le riflessioni di politica estera. Se è vero che petrolio e gas naturale resteranno fonti rilevanti nella transizione energetica, è comunque lecito attendersi che il peso dell’oil & gas diminuisca, come strumento e come obiettivo, nelle considerazioni strategiche di Washington. Il relativo disimpegno dal Medio Oriente, già in corso, ne sarà una delle implicazioni possibili. Con la riduzione del peso dei combustibili fossili, gli Stati Uniti potrebbero perdere una rilevante leva internazionale quale swing producer. D’altro canto, considerazioni e clausole di tipo ambientale influenzeranno la loro agenda commerciale – e parte dell’approccio americano alla riforma della Organizzazione mondiale del commercio (OMC), e i rapporti bilaterali con le grandi economie “indo-pacifiche”. Nell’insieme, vecchia e nuova geopolitica energetica tenderanno a combinarsi o meglio a sovrapporsi. 

 

Le terre rare e la competizione con la Cina 

L’enfasi di Washington sul cambiamento climatico ha una valenza ambigua sul problema numero uno della politica estera americana di ieri e di oggi, la competizione con Pechino. Da una parte la strategia internazionale degli Stati Uniti – che secondo la definizione di Jake Sullivan, consigliere alla Sicurezza nazionale, deve funzionare per la working middle class americana – punta a una politica dura di contenimento della Cina. Dall’altra, la risposta al cambiamento climatico ha una dimensione globale e quindi richiede di sedersi allo stesso tavolo con Pechino (e il tavolo è stato organizzato da Washington con il Summit internazionale sul clima, nell’aprile scorso). Si tratta insomma di valutare fino a che punto la nuova “guerra fredda hi tech” con la Cina permetterà accordi settoriali in materia energetica. Del resto, la vera guerra fredda, quella con l’Urss del secolo scorso, non aveva impedito accordi specifici sul controllo degli armamenti.  

Con la Cina, il nodo essenziale riguarda la competizione per il primato tecnologico: gli Stati Uniti non possono lasciare a Pechino la supremazia nelle tecnologie verdi. La Cina è oggi il principale responsabile delle emissioni di gas serra ed è altamente dipendente dal carbone, che alimenta ancora il 58 percento della produzione elettrica cinese. Al tempo stesso, la Cina produce circa il 70 percento dei pannelli fotovoltaici globali, la metà dei veicoli elettrici e un terzo dell’energia eolica. Nel solo 2020, ha aumentato la sua capacità eolica di quasi 100 Gigawattora. Si tratta di una crescita del 60 percento rispetto all’anno precedente, rivendicata da Pechino per legittimare il proprio impegno (considerato poco credibile dalla maggioranza degli osservatori) di raggiungere la carbon neutrality entro il 2060. 

La spinta di Washington per una maggiore sostenibilità energetica, almeno sul breve periodo, dovrà fare riferimento a Pechino anche per un altro aspetto: il nuovo trend globale di sviluppo di una tecnologia a basse emissioni di carbonio ha aumentato enormemente la competizione per l’accesso alle materie prime necessarie a sostenerlo. Il mix di metalli e minerali necessari per la transizione energetica, tra cui figurano cobalto, rame, litio e terre rare, è ampio, e la Cina ha un ruolo preponderante in quasi tutte le catene di fornitura. Anche grazie alla politica di penetrazione in Africa Sub-Sahariana, la Cina controlla quasi l’85 percento delle riserve mondiali di cobalto raffinato, indispensabile per la produzione delle batterie litio-ioni, a cui si aggiunge il controllo del 40 percento dei giacimenti di terre rare. Come osserva il Financial Times, costruire un veicolo elettrico senza il coinvolgimento della Cina è diventato quasi impossibile. 

La transizione energetica ha accentuato un terreno di competizione su cui la Cina ha un vantaggio comparato; gli Stati Uniti investono in modo massiccio, e l’Europa rivendica una leadership ma senza una visione chiara delle implicazioni geopolitiche del cambiamento in atto. 

 

la foto La Cina produce circa il 70 per cento dei pannelli fotovoltaici

 

La politica estera del Green Deal europeo 

Bruxelles si considera un leader della sostenibilità ambientale e vuole costruire su questo accordi multilaterali che funzionino. L’Europa produce il 10 percento delle emissioni di carbonio globali: per rendere il Green Deal efficace sul piano globale, senza danneggiare la propria competitività industriale, l’Europa deve trovare accordi con le altre grandi economie.  

Nonostante dipenda ancora fortemente dai combustibili fossili, che rappresentano poco più del 70 percento del mix energetico continentale, l’Europa punta oggi ad una riconversione profonda del suo sistema economico basata sul paradigma della transizione ecologica: la riduzione del 55 percento delle sue emissioni nette di carbonio nel 2030 e la neutralità climatica entro il 2050. Anche per questa ragione, i finanziamenti a favore della transizione energetica costituiscono una parte sostanziale dei fondi allocati con il Next Generation EU.  

La trasformazione del sistema energetico europeo ha conseguenze geopolitiche per il momento abbastanza trascurate. Come noto, l’Europa è fortemente dipendente dall’esterno per il proprio approvvigionamento energetico; nel solo 2019 ha importato prodotti energetici per un valore superiore a 320 miliardi di euro. La transizione energetica europea avrà quindi un effetto sia sui principali fornitori attuali (dall’Algeria alla Russia) che sul mercato del petrolio (l’Europa copre circa il 20 percento delle importazioni globali). Questo significa che il Green Deal non può essere visto solo come una riforma economica; ne vanno affrontate anche le dimensioni di politica estera.  

Gli elementi di una geopolitica del Green Deal europeo, secondo uno studio recente dell’European Council on Foreign Relations, sono schematicamente questi. Primo, ripercussioni negative per alcuni dei principali paesi produttori di combustibili fossili nel Mediterraneo: l’Europa dovrà in qualche modo prepararsi a gestirne le conseguenze, contribuendo allo sviluppo di energie rinnovabili. Secondo, una riduzione progressiva della dipendenza dalla Russia, che tenderà a stringere accordi energetici con Pechino. Terzo, la crescente importazione di materiali critici per lo sviluppo delle clean technologies – i metalli e le terre rare cui si è accennato. Per evitare una dipendenza eccessiva dalla Cina, l’Europa dovrà cercare di diversificare le proprie catene di fornitura. Quarto: il tentativo di creare con gli Stati Uniti una forte convergenza sulla politica climatica, che permetta accordi sul clima e il commercio ammortizzando i potenziali effetti distorsivi di meccanismi di prezzo del carbonio. Quinto: l’aspirazione a definire standard globali per la transizione energetica, in modo particolare sulla questione idrogeno e sui “green bonds”, i finanziamenti per la transizione energetica.  

Costruire un’alleanza transatlantica in materia energetica è ormai possibile e necessario. Ma non sarà così semplice. La “vecchia” geopolitica crea comunque tensioni. Il gas naturale resterà una fonte essenziale nella transizione energetica; e ciò significa che nodi fortemente controversi, come il gasdotto Nord Stream II fra Germania e Russia, continueranno a dividere le due parti dell’Atlantico e gli europei fra loro.  

 

Sulla nuova agenda climatica, Joe Biden è certamente molto più vicino all’Europa di Donald Trump ma anche di amministrazioni democratiche precedenti. Esistono tuttavia problemi da risolvere. Nel dicembre scorso, la Commissione europea ha proposto a Washington una serie di iniziative congiunte sul clima, che includono meccanismi di tassazione sulle emissioni di carbonio. Come è noto, l’Europa propone da tempo un “Carbon Border Adjustment Mechanism”, un sistema di tariffe sul contenuto di carbonio dei beni importati. La ragione è abbastanza chiara: in assenza di un meccanismo del genere, le imprese tenderebbero a trasferire la propria produzione in paesi con regolazioni ambientali meno strette (secondo il fenomeno definito “carbon leakage”). In altri termini, è un meccanismo a difesa della competitività del business industriale europeo, già criticato dagli Stati Uniti in passato per i suoi effetti potenzialmente protezionistici. In linea di principio, l’amministrazione Biden favorisce a sua volta una regolazione ambientale più stretta; e potrebbe essere disposta a discutere le proposte di Bruxelles. Ma questo richiede compromessi importanti da parte europea, ad esempio l’abbassamento di alcuni standard (emissioni del settore automobilistico). E non toglie lo scetticismo già espresso da John Kerry sulla eventuale introduzione di una “border tax”, vista come meccanismo di ultima istanza. Non c’è dubbio che un accordo fra Europa e Stati Uniti, per quanto difficile e non sufficiente, sia comunque una condizione indispensabile per incentivare altri grandi economie a muoversi su linee simili.  

In conclusione, la transizione energetica produrrà inevitabilmente perdenti e vincenti anche sul piano internazionale. Solo se ne sarà consapevole, l’Europa riuscirà a gestirne le conseguenze geopolitiche.