Ultimo numero: 60/The race for critical minerals
Tornare alle vecchie alleanzedi Lorenzo Castellani
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Golfo Occidente

Tornare alle vecchie alleanze

di Lorenzo Castellani

Sauditi ed Emirati sono la piattaforma con cui l’Occidente deve dialogare sul piano economico, energetico e politico. Ne va della stabilità politica dell’area, della sostenibilità energetica dell’Europa, dell’economia di gran parte del mondo 

 

14 min

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el nuovo scenario globale l’energia è diventata la materia politica fondamentale. Le sorti delle economie, dei conflitti armati, dell’ordine internazionale ruotano intorno ai giacimenti fossili più che mai. Gran parte degli analisti non ci avrebbe scommesso nulla fino a qualche anno fa, ma in un mondo che si dematerializza grazie alla tecnologia il ruolo delle materie prime è sempre più importante. Lo testimonia l’atteggiamento di alcune potenze mondiali, come la Russia e la Cina, che hanno imposto una vera e propria “militarizzazione” dei giacimenti e delle catene di approvvigionamento scatenando crisi inflazionistiche e susseguenti frenate economiche altrove.  

 

È quasi superfluo sottolineare che con lo scoppio della guerra in Ucraina, la conseguente diversificazione nell’approvvigionamento di gas e petrolio dell’Europa occidentale, l’importanza strategica dell’area del Golfo è in crescita, dopo anni di rapporti altalenanti con gli Stati Uniti e con gli stessi paesi europei.  

 

Una zona di confine 

L’instabilità dell’area oggi s’inserisce nella più ampia prospettiva globale di decoupling: da un lato gli autoritarismi, Russia e Cina in testa, che detengono il controllo di gran parte delle materie prime e concorrono per la supremazia tecnologica; dall’altro le democrazie occidentali, superiori sul piano economico e militare. In questo contesto, il Golfo diventa una delle zone di confine, tra le più importanti sul piano strategico, il limes su cui convergono spinte contrapposte e interessi configgenti che si sovrappongono alle già numerose tensioni dell’area. Ciò è tanto più vero per ciò che la realtà ha mostrato nell’ultimo anno: la transizione energetica sarà lunga e faticosa; eccessive accelerazioni comportano disagi economici e sociali ingestibili per le democrazie; il processo di liberazione dai combustibili fossili durerà ancora decenni; gli squilibri tra domanda e offerta determinanti dalle politiche green e dal restringimento della produzione oggi vengono ancora colmati tornando al carbone e al gas. È evidente, dunque, che solare, eolico ed elettrico non saranno in grado di rimpiazzare gli idrocarburi e chi ne controlla i giacimenti ha un potere negoziale rilevante. Per questo la questione energetica s’intreccia tanto con l’equilibrio di potere politico. 

 

Nell’ultimo decennio, l’incomprensione dei cambiamenti avvenuti nel mondo arabo, persiano e turco, da parte degli Stati Uniti, è stata critica, impedendo di valutare l’instabilità del radicamento istituzionale dei Fratelli Musulmani. Non basta aver costituzionalizzato il proprio comportamento come è accaduto in Giordania e in Marocco per circa cinquant’anni; non basta tutto ciò per essere in grado di governare un paese come l’Egitto o la Libia, superando i legami con le radici islamiche fondate sull’identità di legge islamica e legge dello Stato. Si è dimenticato inoltre che il salafismo godeva di un forte appoggio da parte dell’Arabia Saudita, mentre il Qatar sosteneva la Fratellanza Musulmana. Non bastava quindi sostituire ai militari a quelle forze politiche che si pensava si fossero costituzionalizzate per trasformare il sistema di pesi e di rilevanze nel Medio Oriente e in Nord Africa. Il meccanismo di disinnesco delle dittature militari con una riforma politica affidata a forze come i sunniti radicali ha avuto lo stesso effetto che si è prodotto in Iraq e ben prima in Iran, portando di fatto al potere lo sciismo più intransigente che costituisce ora il fattore che ha destabilizzato il Libano e la Siria e ora comanda in Iraq. È sempre concreto il rischio di una vasta "guerra civile islamica" combattuta tra sciiti e sunniti, ma anche all’interno dello stesso mondo sunnita. Allo scontro di civiltà tra Islam e Occidente paventato da Huntington si sovrappone uno scontro molecolare interno al mondo islamico che rischia di travolgere gli Stati-nazione, come è evidenziato dalla disgregazione della Siria. Più complesso ancora il problema di tutta l’area che va dal Marocco e dal Golfo all’Iran e che costituisce la nuova terra di confronto nel mondo islamico che un tempo vedeva sempre più allontanarsi da sé il ruolo egemonico degli USA con conseguenze che furono devastanti. Un vuoto che, dopo l’accordo tra Emirati Arabi Uniti e Israele, ha cominciato solo dal 2020 a essere colmato. Il tema energetico è fondamentale ma non sufficiente per comprendere la situazione. Anche nel 1956 – in occasione della guerra scatenata da Israele, Francia e Regno Unito contro Nasser, il quale nazionalizzava il Canale di Suez – gli USA colsero l’occasione per sostituirsi alla decadenza dell’egemonia inglese con una spregiudicata lotta contro l’influenza sovietica che salvò l’Egitto e Israele, insieme, dalla rovina.  

 

Il ruolo dello shale 

Ora il gioco è più complesso ancora. Gli shale oil and gas, che pure sono risorse di breve durata nella dinamica del mondo energetico per la scarsità dei giacimenti nordamericani, determinano un indebolimento crescente dell’OPEC, come è denunciato dai sauditi e con tensioni che si riflettono nelle divisioni nella famiglia reale. Tuttavia, l’attrito con l’OPEC ha una radice storica più profonda. Inizia da quando, alla metà degli anni Settanta, le riserve proven and unproven di petrolio hanno iniziato a concentrarsi non più nelle mani delle majors, ma invece in quelle delle NOCS (National Oil Companies), ossia delle compagnie nazionali, in prevalenza non OPEC, che oggi ne possiedono il 90 per cento. Questo ha provocato un aumento della concorrenza, con conseguente impressionante rivoluzione tecnologica, e un affollarsi di nuove presenze indipendenti nell’oligopolio energetico mondiale. 

 

la fotoL'amministrazione Biden sembra, rispetto alle precedenti, meno disinteressata verso le questioni mediorientali

 

La rivoluzione dello shale oil and gas produce trasformazioni sia geostrategiche sia macro e microeconomiche rilevanti ma di breve termine. Proprio per questo esse possono essere devastanti, come gli ultimi vent’anni insegnano attraverso la sanguinosa destabilizzazione del Mediterraneo. La conseguenza di maggior rilievo è senza dubbio strategica più che di mercato. Può nascere, infatti, l’illusione nella classe dirigente americana che sia possibile fare a meno del controllo del Grande Medio Oriente, con la costante perdita di interesse degli USA per il dominio dell’area del Golfo e in generale nordafricana e mediorientale. Si è già aperto, al tempo della guerra per procura in Siria, un pericoloso vuoto di potere perché l’Europa non è in grado di colmare tale vuoto per le sue divisioni interne: per l’assenza di un esercito europeo, per le conseguenze dell’austerità economica che ha indebolito l’industria nei suoi avamposti sud-europei, e che in alcune sue aree forti è sottoposta a rischi di crollo del procurement pubblico e dei mercati interni, e di errori di governance per le divisioni tra nazioni. Da questo punto di vista anche il Next Generation EU non è attrezzato per compiere miracoli: è un piano di spesa a guida tecnocratica che può dare un po’ di ossigeno alle casse statali, ma centralizza le decisioni in una Unione Europea ancora lontana dalla costituzione e dal coordinamento militare comune; e prevede di accelerare la transizione green sorvolando sui rischi che questa comporta se sommata alle sanzioni alla Russia e confondendo vettori (elettrico) e produzione. Dunque, il mercato si dispiega sì, ma tra mille faglie e crepe, e la dimenticata teoria di Seymour Martin Lipset e Steve Rokkan sui cleavage di cui il mondo intero soffriva e soffre nei processi di cambiamento torna alla luce con prepotenza. Prima c’era il terrorismo dei primi anni duemila: oggi c'è ancora quest’ultimo, ma prende una forma para-statuale e si alloca in una faglia che rischia di dividere il mondo nell’area di crisi a più alta intensità disgregatrice. Ciò si è determinato laddove risiedono le riserve energetiche da idrocarburi fossili più dense del pianeta. Una faglia che corre spaccando in due il Nord Africa e giunge sino al Golfo Persico e rischia di disgregare il Medio Oriente e l’Asia centrale come un mosaico irrisolvibile. A un capo di esso vi è l’Arabia Saudita e la sua egemonia sunnito-wahabita oggi sfidata dal Qatar e, all’altro capo, l’Iran e la sua ideologia sciita: entrambe a macchia di leopardo dividono, frastagliano, contrappongono tutti gli Stati del Golfo, del Medio Oriente, dal Libano alla Persia. La Siria si è violentemente disgregata, come la Libia, e queste faglie rischiano di inghiottire anche la monarchia hashemita che regna sulla Giordania, oltre a esacerbare i mai sopiti conflitti interconfessionali in Iraq e Libano (in una crisi socio-economica profondissima), minacciando naturalmente anche Israele. Giordania e Marocco sono i “capisaldi”, con l’Arabia Saudita, di un mondo che tra nord Africa e Medio Oriente si regge su equilibri di potere fragili. Essi sono stati riprodotti non solo dal ruolo stabilizzatore della Siria, ma anche da quello decisivo dei militari egiziani.  

 

La strategia degli USA 

Sino a quando gli USA continueranno a svolgerlo, quel ruolo di stabilizzatore, che giunge sino al Mediterraneo e a Israele, proteggendo le uniche e peculiari costruzioni istituzionali di sauditi ed emirati? Ecco il più drammatico degli interrogativi che la riflessione strategica pone oggi dinanzi a noi. L’amministrazione Biden sembra assumere un atteggiamento meno disinteressato rispetto a quello delle passate presidenze, anche alla luce di quanto sta accadendo in Ucraina. Alla fine, la tanto attesa trasferta di Joe Biden nel Golfo è stata confermata, con incontri in Israele e negli Emirati Arabi Uniti. Si è discusso di questioni importanti e delicate, come ad esempio l’inclusione di sauditi ed Emiratini nello scudo anti-missile americano. Naturalmente, il convitato di pietra sono state le relazioni con l’Iran, sia degli americani che degli alleati. Sia gli israeliani sia i sauditi e gli emiratini finora avevano guardato con sfiducia il presidente americano, sospettato di voler rimettere in campo le politiche di distensione con Teheran che avevano contraddistinto la stagione di Barack Obama. 

 

A questo sospetto si era aggiunto il distacco da parte di Biden verso il principe Mohammad bin Salman, poco incline a modernizzare il suo paese sul piano politico e civile secondo canoni occidentali. La scelta di stringere ulteriormente l’alleanza con Israele, e di mostrarsi aperti verso i partner del Golfo, sembra lasciar intravedere una svolta: Washington non vuole guastare i rapporti privilegiati con gli Emirati, che ormai tra alti e bassi procedono da mezzo secolo. Una distensione dei rapporti con l’Iran, nei termini obamiani, non sembra più essere sul tavolo. Gli americani vogliono scongiurare sia un rafforzamento marittimo cinese sia soprattutto la solidificazione della partnership tra paesi del Golfo e India. La grande democrazia asiatica ha infatti assunto una posizione ambigua verso la Russia, dialogante con la Cina e ha aperto il proprio sistema economico proprio ai paesi del Golfo. In particolare, la catena del valore manifatturiera nella produzione e lavorazione degli alimenti. 

 

la fotoCon i suoi 829,80 metri il Burj Khalifa è il grattacielo più alto del mondo

 

Gli emiratini usano l’India come una sorta di campo di investimenti esterni, finanziando la creazione di infrastrutture dedicate nel subcontinente indiano. A ciò si aggiunge la catena integrata degli idrocarburi attraverso investimenti multimiliardari nella produzione petrolchimica. Per tutti questi motivi, le democrazie occidentali non devono perdere la propria presa sugli alleati fondamentali del Golfo in un momento in cui gli equilibri del mondo si ridisegnano. Ricostruire un realistico sistema westfaliano nel Medio Oriente, laddove non vi sono più gli Stati e la civilizzazione statuale come in Libia e Iraq, e rinsaldare le alleanze nel Golfo che sembravano aver perso vigore nell’ultimo decennio. Nella mappa dei nuovi confini, sempre più evidenti, sauditi ed Emirati sono la piattaforma con cui l’Occidente deve dialogare sul piano economico, energetico e politico. Ne va della stabilità politica dell’area, della sostenibilità energetica dell’Europa, dell’economia di gran parte del mondo e dei delicati equilibri di potere nelle zone crocevia di molteplici interessi zonali come questa. Serrare i ranghi delle vecchie alleanze è sempre più necessario per tornare ad immaginare un futuro più ordinato e prospero. Nel Golfo e in Occidente.