Ultimo numero: 60/The race for critical minerals

La pesca che va bene all’ambiente

di Roberto Di Giovan Paolo

Ambiente

La pesca che va bene all’ambiente

di Roberto Di Giovan Paolo

Una confusa rete di export-import non collima più con le diete di ogni singolo Paese e contribuisce all’impoverimento dei mari e alla produzione di CO2 per i trasporti e l’acquacoltura. Come riequilibrare i consumi di pesce

8 min

Tra i problemi che la Brexit avrebbe dovuto risolvere, e non ha risolto, c’è anche la dieta alimentare degli inglesi. Almeno quella a base di pesce. Che tutti immaginano fondamentale in un’isola, così orgogliosa della sua insularità. È un problema che l’Università dell’Essex lo scorso anno ha messo in luce, lontano dai riflettori del commento politico perché la sua ricerca racconta 100 anni di pesca e di rapporto con i pesci e il mare dei britannici. 100 anni in cui si è pescato sempre più vicino alle coste - fine dell’Impero sui mari ma anche ingresso nelle regole dell’Ue - ma anche 100 anni di cambiamenti del mercato che hanno portato la Gran Bretagna a essere uno dei Paesi, assieme agli Stati Uniti, con minore varietà del consumo, limitandosi solo ai cosiddetti “big five” ovvero merluzzo, eglefino, salmone, tonno e gamberi di varia grandezza.

 

Dove è diffusa la dieta dei “big five”

 

Non è un problema solo dei sudditi di Sua Maestà Britannica, perché la dieta di pesce è seguita per i “Big Five” anche negli Usa e in misura diversa un po’ in tutto il mondo, se pensiamo che la riflessione nell’Unione Europea sulla pesca parte dalle stesse premesse di mercato e che il salmone è il primo della lista perfino nel sushi giapponese, ma rispetto alla cultura millenaria di quel Paese va detto che si tratta di una “novità” degli ultimi venti anni visto che prima degli anni settanta un sushi al salmone apparteneva alla esoticità culinaria nel Sol Levante.

 

I danni all’ambiente

 

In più, oltre ai problemi alimentari e di mercato, questa riduzione di attenzione alle specie da pescare, lavorare e gustare, ha prodotto danni anche dal punto di vista ambientale: le flottiglie di pescherecci si concentrano dove trovano queste specie e impoveriscono parti di mare; si pesca più di quanto serva al mercato e si disperde o spreca la pesca di altre specie una volta considerate più appetibili; si incentivano le acquacolture più intensive con danni all’ambiente e al pescato (si consideri le polemiche sui salmoni ingozzati di medicinali nel nord Europa e principalmente in Scandinavia) e infine si produce molta più CO₂ per la lavorazione e il trasporto tra Stati su gomma o via aerea (altro che Km zero!).

 

L’impatto sui pescatori

 

Insomma, un bel danno complessivo, cominciato col proporre gusti “omogeneizzati” in tutto il mondo e proseguito con la necessità di seguire i gusti imposti dal mercato alimentare. Il che ha voluto dire anche maggiore selezione tra le flotte di pescherecci, fine o diminuzione del lavoro del peschereccio individuale, e abituato a vendere localmente il pescato anche appartenente a specie che ormai pare conoscano solo i nostri nonni o genitori. In Italia ne sappiamo qualcosa con le campagne, che ormai datano a trenta-quaranta anni fa, sul cosiddetto “pesce azzurro”, ma forse proprio quelle campagne e la cura e la crescita di Chef su una base storica nostra di cucina locale ci ha salvato, almeno temporaneamente.

 

L’allarme della Fao

 

Tuttavia il problema rimane a livello globale se la Fao insiste sul fatto che una educazione alimentare adeguata di famiglie e cittadini/consumatori nel mondo e degli stessi pescatori e rivenditori di pesce potrebbe garantire una migliore distribuzione del pescato (e delle proteine contenute nel pesce), collegandolo alla necessità di adeguarsi anche agli standard richiesti all’alimentare per via dei cambiamenti climatici (nelle ultime COP la Fao ha spesso ricordato il nesso tra alimentazione, distribuzione del cibo e parametri ambientali, e lo ricorda anche con il suo abituale Rapporto annuale).

 

Tornare a pescare

 

Una risposta immediata non esiste, ma il problema è chiaro a tutti: peschiamo sempre di più e in maniera globale in spazi più ristretti; impoveriamo questi spazi marini e oceanici di specie, anche con lo spreco di altre specie della catena alimentare marina e spesso roviniamo fondi marini e insenature con le attrezzature più o meno tecnologiche non innovative. Infine abbiamo Paesi anche ricchi commercialmente come Gran Bretagna o Usa, o addirittura ricchi e con marinerie tradizionali e secolari, come Indonesia, Giappone, che hanno più import che export a causa della necessità di saturare un mercato che chiede solo i “Big Five”. Sembrerebbe più sano e anche meno confuso che ognuno torni a fare la sua parte, nel suo Mare, “sotto casa”, pescando, vendendo e mettendo in tavola pesce domestico; più varietà di specie, che corrisponde spesso anche alla tradizione culinaria di ogni Paese, talvolta davvero a chilometro zero; e con minore intervento di lavorazione e trasporto che potrebbero far diminuire di molto il consumo di energia e l’ emissione di CO₂.

 

Il paradosso dei gamberi e non solo

 

Ma non è così semplice. Certamente servirà un approccio multidisciplinare. Per onestà intellettuale va detto che alcune forme di acquacoltura rispettose dell’ambiente sono più costose, almeno all’inizio. Oppure che cambiare abitudini consolidate in Paesi dove la cucina ha un ruolo meno importante che in Italia, Spagna o Francia, e il mercato è guidato da grandi gruppi multinazionali è più difficile. Ma qualcosa si sta muovendo, anche solo per motivi economici, per esempio, appare assurdo anche ai responsabili politici in Usa del Ministero dell’Agricoltura, che quel Paese consumi per il 30 per cento del prodotto pescato solo gamberi e che il 90 per cento di questi siano importati da Indonesia e India dove esistono peraltro questioni legate sia all’ambiente che al sistema del lavoro. Oppure ancora il paradosso per cui gli Stati Uniti sono tra i sei più importanti produttori mondiali di cibo dal mare ma ne importano per oltre il 65% per i suoi consumi. La Gran Bretagna va un po’ meglio con meno del 50 per cento di importazione, ma comunque il consumo di cibi dal mare è crollato nei giovani e complessivamente consuma oggi il 40 per cento di esso mentre nel 1975 rappresentava l’89 per cento della dieta alimentare britannica.

 

La dieta che salva il clima

 

Cambiare i gusti, le ricette, la percezione del cibo, lo sappiamo, è cosa più difficile che far cambiare ideologia o perfino il voto. Ma oggi si tratta di mettere assieme più istanze: una alimentazione per tutti e migliore qualitativamente, come indica la FAO. E allo stesso tempo un impulso a farlo contribuendo a una razionalizzazione del consumo di energie, e di energia, accanto al rispetto dell’ambiente. Che vuol dire anche contribuire con milioni e milioni di persone a migliorare le condizioni ambientali e contrastare le emissioni di CO₂. Non sappiamo quanto i pesci siano d’accordo su tutto questo, ma certamente continuando con la confusione attuale, nemmeno la qualità di vita loro e del loro ambiente potrà migliorare, perfino se diventassimo tutti vegani incorruttibili.