Un mondo angosciato ha prodotto una COP in stallodi

Roberto Di Giovan Paolo

Climate Change

Un mondo angosciato ha prodotto una COP in stallo

di Roberto Di Giovan Paolo

A Baku la COP 29 non delude nessuno perché nessuno si aspettava molto da una sessione con la metà dei partecipanti, pochissimi leader mondiali di rilievo e un mondo inquieto. In assenza di politica e di miracoli resta un buon lavoro sulle regole, i fondi e il lancio della “Roadmap verso Belém” 2025, sperando nel “tocco” di Lula e del suo Brasile

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Le assenze annunciate per elezioni, guerre o semplice sfiducia hanno dato il “colpo di grazia” alla COP 29 di Baku dove per due settimane oltre 40mila funzionari, esperti, scienziati, si sono confrontati nel tentativo di fare passi avanti sui temi della transizione ecologica e soprattutto avendo quest’anno un focus sulla finanza al servizio del clima. Non c’è dubbio che il voto statunitense con la rielezione di Trump, che nel suo primo mandato aveva annunciato il ritiro degli Stati Uniti d’ America dal Trattato di Parigi, ha molto condizionato l’entusiasmo già in discesa rispetto agli anni passati. Dopo le intemerate di Greta Thunberg sulle “passerelle mondane” dei vertici sul clima degli anni passati, la riduzione degli osservatori e dei partecipanti, dagli 80mila di Dubai dello scorso anno, ha fatto il resto, rendendo le due settimane una maratona di bracci di ferro tecnici, a volte anche interessanti. Ma era inevitabile che dal punto di vista politico il livello qualitativo si sarebbe abbassato e il numero di “ritagli” della rassegna stampa si sarebbe ridotta di oltre la metà di “pezzi” nel mondo, come conseguenza diretta. Anche le reazioni generali alle decisioni sul documento finale ne sono una testimonianza: se si esclude la visione ottimistica dei rappresentanti dell’Unione Europea (almeno qui c’era Charles Michel a rappresentarla) che parlano di passi avanti, davvero c’è poca voglia di farsi illusioni: chi come la Francia e altri Paesi grandi e industrializzati parla di poca ambizione e obiettivi di basso profilo, chi come i paesi del Sud del mondo o dell’Aosis (i piccoli Paesi insulari) dice che non si è raggiunto nemmeno il “minimo sindacale”.

Eppure, effettivamente qualche passo in avanti si è fatto; si tratta poi di vedere se saranno concretizzate le misure. Di certo qualche cambiamento strategico nelle relazioni tra Stati che avrà influenza nei prossimi anni, va segnalato.

 

I punti d’incontro

A cominciare dalle cifre dell’accordo: si passa dai 200 ai 300 miliardi di dollari annui di impegno dal 2035 per garantire le misure di Parigi sul riscaldamento globale e l’emissione di carbonio. Con un obiettivo di raccolta-tra pubblico e privato - di almeno 1300miliardi di dollari da inserire nella roadmap tra Baku 2024 e Belem, in Brasile nel novembre 2025, per la COP 30. Raggiunto l’accordo sulle cifre si è lavorato sulle regole di questi investimenti rispetto al passato e ci sono alcune importanti novità. In primo luogo, pur rimanendo una contribuzione volontaria annuale degli Stati essa non è più rivolta solo dai Paesi industrializzati ai Paesi in via di sviluppo, ma apre le porte all’impegno economico di Stati che formalmente venivano ancora indicati come Paesi non industrializzati, come per esempio Cina e Arabia Saudita, cambiando una visione del mondo stratificata da decenni in ambito delle Nazioni Unite e tenendo conto che tra questi Paesi in via di sviluppo molti lo sono certamente sulla base del PIL individuale ma non delle ricchezze di materie prime e del loro sfruttamento. Il che richiama, per altro verso, la distribuzione sociale della ricchezza ma poco incide, purtroppo, nella produzione di C02, come è il caso della Cina, che è ai vertici di questa classifica della pericolosità ambientale. In secondo luogo, si è stabilito che verrà costituita una griglia di ricevimento dei fondi e anche di impiego degli stessi nei luoghi dove maggiore è lo squilibrio ambientale. Anche qui, come per la COP 16 sulla biodiversità il problema è convincere i Paesi a pagare una somma “gentilmente offerta”, e non impegnata obbligatoriamente su ragioni di diritto, ma si pone la questione della organizzazione della raccolta anche nel settore privato. Un tema che negli anni passati e in particolar modo nella COP 28 di Dubai aveva visto impegnato Kerry come plenipotenziario della Presidenza Usa: si erano fatti passi avanti per coinvolgere le grandi aziende presenti su molti continenti e che avevano mostrato una maggiore coscienza ambientalista. Ora con il punto interrogativo della nuova presidenza Usa rimane il problema di coordinare uno sforzo inteso a integrare consistentemente con il settore privato gli Stati nazionali, che non è che abbiano proprio brillato per elargizioni munifiche negli ultimi anni. Anche comprensibilmente, visto lo stato dei loro bilanci e la situazione politica internazionale sotto gli occhi di tutti.

 

Frattura tra Nord e Sud

Dal punto di vista strategico, la stessa discussione sui temi della finanza climatica in cui è venuto fuori il paradosso di Paesi considerati in via di sviluppo anche quando produttori mondiali di beni che contribuiscono al riscaldamento globale e ai cambiamenti climatici, ha portato a una piccola rivoluzione ideologica nella questione di come affrontare la mitigazione del clima e il mercato del carbonio a livello globale. Qui ancora una volta come a Glasgow nel 2021 è emersa una frattura tra Paesi del Nord e Paesi del Sud. Ma mentre lì si trattò del gesto forte del leader indiano Modi, per ribadire le ragioni dei Paesi ancora in via di sviluppo energetico di avere il tempo di organizzare prima la distribuzione generale alla popolazione per poi puntare alle politiche di contrasto ai cambiamenti climatici e al rinnovamento delle energie, qui il tema centrale è stato la velocità con cui procedere ai cambiamenti industriali o comunque strutturali e di settori produttivi. Con l’obiettivo di tener fede alle linee direttive del Trattato di Parigi e alla “finestra ristretta” di cui ci ha parlato il Rapporto scientifico IPCC Onu sin dal marzo scorso, aggravato da un anno in cui, per la prima volta si è andati oltre il previsto riscaldamento globale, alimentando il pessimismo soprattutto di ONG e scienziati. Ecco allora che il Nord del mondo è sembrato molto più legato a una visione ambiziosa delle misure da prendere al contrario del Sud del mondo che invece ha spinto verso una “gradualità” delle misure ipotizzate. Un paradosso, che nella mitigazione del clima ha prodotto uno stallo e nessun documento finale mentre sulla minore produzione e cattura del carbonio, ha raggiunto un accordo quasi solo su una griglia generale di regole. Da non sottovalutare certamente, ma anche qui è stato ottenuto un risultato minimo. Di fatto si è approvato una serie di regole sullo scambio bilaterale tra Stati a carattere volontario di “crediti” di carbonio; un meccanismo centralizzato per un “carbon market” di carattere globale e infine si è rimandato a Belem tutta la materia dei cosiddetti “approcci non di mercato”: politiche e cooperazione tecnologica condivise per la riduzione di carbonio, senza scambio di crediti.  Anche qui insomma una roadmap ma senza impegni e senza casistica.

 

In conclusione

Non sono solo clausole su carta, sia chiaro: anche lo scambio tra due Paesi necessita di controlli, di evitare doppi conteggi, insomma piccole furbizie che danneggerebbero tutti e al contrario aprono scenari di cooperazione transfrontaliera inediti solo alcuni anni fa.

Ma in definitiva il colpo d’ala non c’è stato. Baku si conclude con un accordo volontario, che si spera non divenga volontaristico, solo sui soldi. E una sua redistribuzione che assomiglia a quella dei fondi strutturali UE, dove in molti contribuiscono, alcuni anche molto, ma poi partecipano anche alla suddivisione. Si aggiunge una “roadmap carbonio” che comprende accordi strutturati solo tra Stati e solo sullo scambio di crediti e una roadmap generale che raccoglie il resto delle politiche sul carbonio e tutte quelle sulla mitigazione, su cui non c’è stato alcun accordo.

Insomma, un rimando al prossimo anno puntando su una stabilità generale che è tutta da trovare.

Certo, Lula, che ha fortemente voluto e ottenuto la COP in Brasile 5 anni dopo la rinuncia ideologica di Bolsonaro, punterà molto a farne una vetrina politica internazionale di rilievo; ma come sempre nelle occasioni di questo tipo, molto dipenderà dal cammino che porterà a Belem: il mantenimento dei pochi impegni ma onerosi presi a Baku; il rapporto IPCC Onu del prossimo marzo 2025; lo stato di salute delle leadership internazionali e anche dell’economia e delle aziende oltreché una rinnovata visione sul ruolo delle Nazioni Unite. Guterres, il Segretario Generale, ha insistito che occasioni come la COP costruiscono la pace e le relazioni nel mondo. Al momento lo stato delle relazioni internazionali nel mondo ha prodotto la COP complessivamente meno mediatica e meno produttiva degli ultimi dieci anni. Purtroppo, non è stata una sorpresa per nessuno.