Nel segno della continuitàdi Raad Alkadiri
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Transizione verde e petrolio

Nel segno della continuità

di Raad Alkadiri

In Messico, Indonesia, Russia, Venezuela, Iran e Algeria l’esito delle urne è risultato favorevole ai governi in carica. Ma saranno i risultati delle elezioni all’estero, più che quelli nazionali, a influenzare la politica energetica dei paesi esportatori di petrolio

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el 2024 si sono tenute elezioni nazionali in diversi Stati, che complessivamente ospitano quasi metà della popolazione globale. Si è votato in oltre 100 paesi, grandi e piccoli, ricchi e poveri, nell’emisfero settentrionale e in quello meridionale, tra cui la prima potenza mondiale, gli Stati Uniti, e lo stato più popoloso del pianeta, l’India.

 

Nonostante le grandi differenze in termini di dimensioni, collocazione geografica e rilevanza economica e politica, si è osservato un tratto comune in queste tornate elettorali. In ogni parte del mondo le votazioni hanno penalizzato i governi in carica, che hanno perso consensi e, in molti casi, potere. Frustrati dall’inflazione elevata, dal calo del tenore di vita, dai problemi legati all’immigrazione e dalla cattiva amministrazione, gli elettori si sono espressi a favore di nuove politiche e nuove leadership. Il desiderio di cambiamento è innegabile.

 

C’è però un gruppo di Stati che sembra andare in controtendenza: i grandi esportatori di petrolio. Nonostante la flessione dei prezzi del greggio negli ultimi 18 mesi e la conseguente pressione fiscale, in Messico, Indonesia, Russia, Venezuela, Iran e Algeria l’esito delle urne è risultato favorevole ai governi in carica o ai partiti al potere piuttosto che agli avversari, in alcuni casi con margini considerevoli.

 

L’eccezione si deve in parte al fatto che in molti di questi Stati c’è un governo rappresentativo debole o fittizio. In questi casi, le elezioni sono state tutt’altro che libere ed eque, e l’esito era praticamente scontato. Ma anche nei paesi esportatori in cui si è svolta una vera battaglia elettorale i cittadini sembrano aver preferito la continuità al cambiamento. A quanto pare la maggior parte degli elettori ritiene della massima importanza mantenere i vantaggi del rentierismo, anche a scapito della libertà politica.

 

 

la fotoIRAN. Il 5 luglio 2024 è stato eletto il presidente iraniano, Massoud Pezeshkian, con 17 milioni di voti contro gli oltre 13 milioni del suo avversario. Le elezioni presidenziali, organizzate dopo la morte del presidente ultraconservatore Ebrahim Raissi in un incidente in elicottero il 19 maggio, si sono svolte in un contesto di malcontento popolare, in particolare per lo stato dell’economia, colpita dalle sanzioni internazionali

 

 

Stando all’esito delle urne, vi saranno pochissime pressioni interne per una modifica delle politiche energetiche e climatiche negli stati esportatori di petrolio. Di conseguenza, la massimizzazione dei ricavi dalle riserve di petrolio e gas si conferma uno degli obiettivi principali. Per gli Stati membri dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC) e della sua versione allargata (OPEC+), la gestione del mercato a breve termine resta in cima alla lista delle priorità, soprattutto alla luce dei segnali di indebolimento dei fondamentali e delle previsioni di accumulo di scorte nel 2025. Al contempo, i grandi esportatori di petrolio continueranno a contrastare ogni tentativo di accelerazione della transizione energetica, citando la relativa affidabilità e convenienza degli idrocarburi e la necessità di dare precedenza al problema della povertà energetica rispetto alla mitigazione degli effetti del cambiamento climatico nel breve e medio periodo.

 

 

Trump 2 e la gestione del mercato dell’OPEC+

Ma questi paesi non devono fare i conti solo con i risultati delle elezioni in patria. Infatti, il conseguimento degli obiettivi degli esportatori di petrolio dipenderà in gran parte dall’esito delle elezioni al di fuori dei confini nazionali, i cui effetti a catena potrebbero ostacolare pesantemente i loro piani. Tra tutte le consultazioni nazionali di quest’anno, con tutta probabilità quella che ha riportato Donald Trump alla Casa Bianca sarà particolarmente significativa in questo senso. Verosimilmente la gestione a breve termine del mercato petrolifero da parte dell’OPEC+ sarà una delle prime vittime della seconda amministrazione Trump.

La politica di produzione del gruppo è già messa alla prova dalle incertezze politiche e di mercato

E la situazione non potrà che peggiorare se, come previsto, il nuovo presidente degli Stati Uniti darà seguito alle promesse fatte in campagna elettorale in materia di politica estera ed energetica. L’inasprimento delle sanzioni nei confronti di Iran e Venezuela, la possibilità di estenderle all’Iraq, l’allentamento dell’embargo sulla Russia, l’invito a incrementare gli investimenti a monte a livello federale e la prospettiva di nuovi dazi doganali sulle importazioni negli USA daranno all’OPEC+ del filo da torcere. Tali fattori si inseriscono in un contesto di maggiore incertezza geopolitica, dal momento che gli Stati Uniti adotteranno una politica estera ed economica più unilaterale a cui il resto del mondo reagirà in qualche modo. Ironia della sorte, nell’immediato queste nuove misure potrebbero generare un rialzo e non ribasso sui mercati. Tutto dipenderà dalla portata e dall’ordine degli interventi. Se applicate in modo rigoroso, le misure sul fronte dell’offerta, che limitano le esportazioni di petrolio iraniano, venezuelano e iracheno, si ripercuoteranno molto più rapidamente sugli equilibri globali rispetto a eventuali variazioni dei livelli di produzione statunitensi o russi, che richiederanno più tempo a causa di fattori di investimento e operativi. Analogamente, la crescita della domanda di petrolio il prossimo anno non risentirà subito della prevista flessione economica legata all’aumento dei dazi statunitensi e alla guerra commerciale globale. Anziché difendere un prezzo minimo l’anno prossimo, l’OPEC+ potrebbe essere costretta a gestire un rincaro dei prezzi, almeno per i primi due o tre trimestri.

 

Tuttavia, un’eventuale tregua sarà probabilmente temporanea. Dopo il 2025, le politiche dell’amministrazione Trump potrebbero penalizzare gravemente i mercati e trainare al ribasso i prezzi del greggio, mettendo in difficoltà l’OPEC+ nella ricerca di un equilibrio fra i timori relativi ai prezzi e quelli relativi alle quote di mercato. Il rispetto degli obiettivi di produzione è già un tema caldo all’interno del gruppo, così come le richieste di revisione delle quote di produzione da parte dei membri più importanti. Il continuo incremento delle scorte su scala globale, sostenuto dall’aumento dell’offerta non OPEC e da una decelerazione della domanda mondiale, non farà altro che alimentare la conflittualità tra i membri dell’OPEC+, soprattutto a fronte delle crescenti pressioni fiscali. In passato l’OPEC+ è stata smantellata, ma solo per preservare la stabilità dei mercati petroliferi durante periodi di crisi economica globale. Sotto la presidenza Trump la gestione del mercato a breve termine da parte dell’OPEC+ sembra destinata a complicarsi e probabilmente diventerà più costosa.

 

 

Una concorrenza meno ordinata

L’elezione di Trump sembra accrescere l’incertezza sul fronte degli investimenti a lungo termine negli idrocarburi, poiché scompagina ulteriormente le prospettive della concorrenza tra i principali esportatori di petrolio. Le promesse del presidente eletto degli Stati Uniti di allentare le restrizioni sui produttori nazionali di petrolio e gas, di riaprire le aree federali allo sfruttamento delle risorse e di recedere immediatamente dall’Accordo di Parigi arrivano in un momento in cui la propensione ad affrontare l’impatto del cambiamento climatico – che comporta esborsi non indifferenti – è già in calo in tutto il mondo. Alla XXIX Conferenza delle parti (COP29) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) di quest’anno si è parlato esplicitamente di un rallentamento, per non dire di un cambio di direzione, nella transizione energetica, e nel comunicato finale del summit è stato omesso il riferimento alla riduzione graduale dei combustibili fossili nel mix energetico che compariva negli atti conclusivi della COP precedente.

 

Questa novità potrebbe dare un forte impulso agli investimenti nel settore degli idrocarburi negli Stati Uniti e in altri stati non appartenenti all’OPEC+. Ma si tradurrà in un aumento della spesa per la produzione di greggio a livello globale solo se gli investitori crederanno che la distensione nei confronti dell’impiego di idrocarburi durerà oltre il medio termine.

 

 

la fotoINDONESIA. Il 14 febbraio 2024 Prabowo Subianto si è imposto alle elezioni generali come nuovo Presidente della Repubblica d’Indonesia. Il neopresidente ha avuto la meglio sull’ex governatore della Provincia di Central Java Ganjar Pranowo e sull’ex governatore di Giacarta Anies Baswedan, che poteva contare su ampio supporto nella capitale e nelle sezioni islamiche più conservatrici per via del ticket con Muhaimin Iskandar, leader del più importante partito islamico del Paese (il Partito per il Risveglio della Nazione)

 

 

Di fatto gli investitori ritengono il quadro a lungo termine ancora confuso, in quanto nel mondo sono in atto importanti cambiamenti geopolitici ed energetici. La direzione della transizione energetica è stata impostata, ma la velocità di crociera è tutt’altro che certa e, nonostante le recenti indicazioni, il percorso sarà accidentato. Negli Stati Uniti, l’alternarsi di amministrazioni repubblicane e democratiche ha determinato un’inversione di rotta sulle principali politiche energetiche e climatiche che probabilmente continuerà. L’Europa sta rimettendo mano alle sue ambiziose politiche verdi, il cui destino ancora non è chiaro in quanto i vari stati cercano di aumentare la propria competitività e di rilanciare l’industria locale. In Cina, le preoccupazioni per la sicurezza energetica e la crescita economica favoriscono una brusca virata verso le energie rinnovabili, anche se i combustibili fossili rappresentano tuttora una parte consistente del mix energetico. Parallelamente a questi cambiamenti si riscontra una forte crescita della domanda di energia nel settore dell’intelligenza artificiale, che attira investimenti e promuove la ricerca di nuove soluzioni energetiche da parte di grandi aziende tecnologiche.

 

 

Il tempo complica le cose

Probabilmente i principali stati esportatori di petrolio considerano gli attuali segnali di rallentamento della transizione energetica e il passo indietro sulle azioni collettive a tutela del clima come una sorta di vittoria che darà nuovo impulso ai rispettivi settori degli idrocarburi, ma per molti di loro potrebbe trattarsi di una vittoria di Pirro. Se nei prossimi anni gli eventi meteorologici estremi continueranno ad aumentare per proporzioni e gravità e se gli obiettivi net-zero fissati per il 2030 non saranno raggiunti, un esito che sembra inevitabile, potrebbero essere adottate politiche climatiche più rigorose per il contenimento delle emissioni, con conseguente sconvolgimento della domanda di idrocarburi.

I consumi non diminuiranno da un giorno all’altro

Ciononostante, l’attenzione verso le energie alternative e gli investimenti in questo segmento aumenteranno e il mix energetico si modificherà più rapidamente del previsto. È probabile che il settore dell’oil&gas (comprese le società statali) debba far fronte a maggiori pressioni per il rispetto delle norme in materia di emissioni Scope 1 e 2. Simili sviluppi trasformerebbero in modo sostanziale il contesto competitivo degli esportatori di petrolio, con conseguenze per le quali la maggior parte di essi non è preparata. Questa situazione è fonte di rischio per i principali esportatori di petrolio.

 

Mentre le elezioni interne potrebbero rafforzare politiche energetiche di “business as usual”, le dinamiche di lungo periodo raccontano un’altra storia. Alcuni esportatori, come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, stanno già preparando il terreno per affrontare le sfide future, investendo in soluzioni per la riduzione delle emissioni e la cattura del carbonio. Questo approccio permette loro di combinare i costi di estrazione più bassi con una ridotta impronta di carbonio nelle loro attività upstream. Tuttavia, la maggior parte delle compagnie petrolifere di Stato sembra ignorare questa strategia, puntando invece sull’espansione della produzione.

 

Nei prossimi anni, il contesto politico globale potrebbe favorire ulteriormente la logica di questo approccio agli investimenti, soprattutto se le aziende private incontreranno limiti nell’allocazione del capitale per le attività upstream. Tuttavia, guardando oltre, ignorare i rischi a lungo termine legati alla domanda rappresenterà una minaccia crescente per gli investimenti e per i flussi di entrate su cui fanno affidamento i grandi esportatori di petrolio. In un mondo di minori consumi di idrocarburi, non tutte le compagnie riusciranno a sopravvivere. Continuare con il “business as usual” potrebbe significare, alla fine, la fine del business per alcune, incluse diverse società statali.