Hot spotdi Edoardo Dellarole e Tommaso Tesi
64

Clima, gli impatti attuali e futuri

Hot spot

di Edoardo Dellarole e Tommaso Tesi

L'Artico si sta scaldando più rapidamente delle regioni a latitudini più basse, con il veloce scioglimento della criosfera terrestre che impatta ecosistemi, infrastrutture e flussi di acqua e carbonio. Il Centro Pontremoli di Eni e CNR studia questi processi

16 min

L

’Artico è considerato il primo “hot spot” del cambiamento climatico, ovvero si sta scaldando più rapidamente delle regioni a latitudini più basse; la criosfera terrestre artica (ghiacciai continentali, permafrost e copertura nevosa), oltre al ghiaccio marino, sta riducendosi a grande velocità. Questi processi di fusione dei ghiacci comportano instabilità delle costruzioni e delle infrastrutture, cambiamenti nel ciclo idrologico e nell’albedo, modifiche nella struttura e composizione del suolo e negli ecosistemi. Particolarmente rilevanti sono gli effetti sui flussi di acqua e carbonio fra suolo, vegetazione, mare ed atmosfera, con possibili meccanismi di feedback sul riscaldamento della regione e su quello globale.

 

Il centro Aldo Pontremoli di Eni e CNR

Proprio per approfondire questo tema, nel 2019 Eni e CNR hanno costituito congiuntamente il primo Centro italiano per lo studio integrato della criosfera terrestre artica. Il centro congiunto è dedicato alla figura di “Aldo Pontremoli” scienziato di fama internazionale scomparso durante la tragica missione del Dirigibile Italia. Lo scienziato era stato uno dei più forti sostenitori delle necessità di condurre ricerche scientifiche in Artico, durante le campagne di esplorazioni di tali regioni ad opera di Amundsen e Nobile. Come accennato, lo scopo del Centro è di esaminare e quantificare i diversi feedback al clima e all’ambiente derivanti dalla destabilizzazione termica della criosfera terrestre artica, in particolare del permafrost. Questi feedback hanno la capacità di modificare l’attuale velocità di riscaldamento del pianeta, oltre che di trasformare l’ambiente artico. Nonostante il loro impatto sia evidente, il tasso con il quale la criosfera artica si sta modificando ed i relativi effetti rimangono ancora incerti, soprattutto per il difficile accesso alle regioni remote dell’Artide, fatto che limita l’acquisizione di misure sul campo.

 

la fotoScienziati del Centro italiano per lo studio integrato della criosfera terrestre artica al lavoro

 

Per garantire una visione olistica ed integrata, le attività del Centro sono state impostate su tre linee di ricerca (vedi grafico) volte ad indagare rispettivamente: (I) l’impatto delle emissioni atmosferiche sulla criosfera, (II) gli effetti dello scongelamento del permafrost sull’Oceano Artico e (III) l’impatto della degradazione del permafrost sugli ecosistemi terrestri.

 

 

L’impatto dei climalteranti sulla criosfera

La Linea di Ricerca I è dedicata allo studio dei processi atmosferici e dei loro effetti sulla criosfera terrestre, con particolare attenzione al cambiamento climatico. Tra gli ambiti di ricerca affrontati, vi sono fenomeni un tempo rari alle alte latitudini, ma recentemente divenuti più frequenti, come gli eventi di pioggia in periodi dell’anno in cui il suolo è ancora coperto di neve (rain-on-snow events). Tuttavia, la maggior parte delle attività si è concentrata sull’analisi della composizione della bassa atmosfera, con un focus specifico sugli agenti climalteranti, ovvero gas serra e aerosol. Tra i gas serra, la Linea progettuale I ha indagato l’anidride carbonica e il metano, per quanto riguarda il loro scambio (in emissione e in rimozione) tra tundra ed atmosfera nelle Isole Svalbard, in collaborazione con la Linea progettuale III, e in funzione della peculiare meteorologia e stagionalità degli ambienti artici.

 

 

la fotoNel 2019 Eni e CNR hanno costituito congiuntamente il primo Centro italiano per lo studio integrato della criosfera terrestre artica. Il centro congiunto è dedicato alla figura di “Aldo Pontremoli” scienziato di fama internazionale scomparso durante la tragica missione del Dirigibile Italia

 

Le misure hanno mostrato che, inaspettatamente, nei mesi estivi non solo l’anidride carbonica ma anche il metano è sottoposto a rimozione nella tundra secca, tipica dei terreni poveri delle Svalbard, mostrando che non solo la vegetazione ma anche la comunità microbica (di batteri metanotrofi: che consumano metano) gioca un ruolo importante nel ciclo del carbonio in questi ambienti remoti. Il progetto ha inoltre studiato l’ozono troposferico utilizzando un modello CTM (Chemical Transport Model) ad alta risoluzione, grazie all’impiego di avanzate infrastrutture computazionali (High-Performance Computing, HPC) messe a disposizione da Eni. Questo approccio ha permesso di simulare nel dettaglio la complessa chimica dell’ozono in atmosfera, tenendo conto del trasporto della massa d’aria e delle variazioni nei cicli di illuminazione tra l’inverno e l’estate artica. Infine, lo studio degli effetti degli aerosol atmosferici sulla criosfera ha rappresentato uno degli obiettivi più complessi delle attività osservative e modellistiche, a causa dell’estrema variabilità delle sorgenti (naturali e antropiche) e delle proprietà di questi composti atmosferici. Gli aerosol, infatti, possono interagire con la radiazione solare, influenzare i processi di formazione delle nubi e depositarsi sulla copertura nevosa, alterandone le proprietà fisiche e trasportando al contempo sostanze inquinanti e contaminanti di varia natura. In particolare, i processi di deposizione sulla neve sono stati studiati in dettaglio in due ambienti artici molto diversi tra loro: un sito costiero su un fiordo delle Isole Svalbard, dove si trova la base “Dirigibile Italia”, e un sito nella periferia di Fairbanks, nella regione interna dell’Alaska.

 

la fotoLo scopo del Centro è di esaminare e quantificare i diversi feedback al clima e all’ambiente derivanti dalla destabilizzazione termica della criosfera terrestre artica

 

In entrambi i contesti, è stato osservato che, nonostante la stratificazione dell’atmosfera dovuta alla presenza di una superficie fredda, il trasporto di particelle di aerosol verso la superficie nevosa è sostenuto dalla turbolenza generata meccanicamente dal vento. La porosità della superficie del manto nevoso agisce come una spugna, favorendo l’adsorbimento e la deposizione degli aerosol in misura maggiore rispetto a quanto previsto dalle formulazioni analitiche e modellistiche, le quali semplificano la superficie nevosa assumendola come perfettamente liscia. Questo determina un trasporto ed un accumulo di particolato atmosferico superiore alle attese, evidenziando anche un contributo significativo delle deposizioni “secche” nella composizione della neve superficiale. I campionamenti del manto nevoso hanno inoltre evidenziato che la sua composizione effettiva è influenzata da modificazioni fisiche, come eventi di parziale scioglimento, che causano la migrazione di composti chimici e contaminanti attraverso lo spessore del manto. Nei casi di eventi estremi, come eventi di pioggia molto intensi in grado di attivare il reticolo idrografico durante la stagione invernale, la parziale fusione ed il dilavamento del manto possono causare un rilascio anticipato e puntuale di nutrienti nel fiordo. Infine, un’ultima campagna di misure, condotta nel 2024 nel sito costiero di Oliktok Point, presso le infrastrutture di Eni nell’Alaska settentrionale, consentirà di approfondire lo studio degli scambi atmosfera-superficie di composti climalteranti e inquinanti in un ulteriore ambiente artico peculiare: la tundra poligonale umida, affacciata sul Mar Glaciale Artico.

 

 

Le interazioni tra Oceano e terre emerse

La Linea di Ricerca II si articola in due principali sotto tematiche di indagine, focalizzate sulle interazioni tra oceano e terre emerse. La prima linea di indagine studia l'impatto dell'aumento delle acque atlantiche nel dominio Artico, un processo innescato dal ritiro del ghiaccio marino, noto come “Atlantificazione dell’Oceano Artico”, che, a sua volta, accelera la fusione della criosfera terrestre, con conseguenze quali la riduzione dei ghiacciai e lo scioglimento del permafrost. In questo contesto, il team di ricerca ha monitorato le proprietà fisiche della colonna d'acqua nel nord delle Svalbard, attraverso un sito osservativo marino permanente che ha rafforzato la rete osservativa del CNR nel Kongsfjorden lungo lo stretto di Fram, un'area strategica per il passaggio della corrente atlantica. I dati ad alta risoluzione ottenuti sono stati integrati con l'analisi di carote sedimentarie, archivi ambientali naturali che permettono di estendere le osservazioni nel tempo e colmare le lacune informative dovute alla mancanza di misurazioni strumentali nel passato. Questa linea di ricerca ha evidenziato come alla progressiva riduzione del ghiaccio marino, iniziata in risposta a dinamiche naturali all'inizio del XX secolo, si sia sovrapposta una forte accelerazione legata all'attuale amplificazione artica e al riscaldamento delle alte latitudini.

 

 

la foto

 

La seconda linea di indagine, con dominio pan-Artico (stretto di Fram, margine siberiano e Alaska), analizza come la progressiva perdita di ghiaccio marino e il riscaldamento della tundra influenzino la riattivazione del permafrost, con importanti conseguenze sul rilascio di gas serra e sull'acidificazione dell'oceano. Attraverso l'analisi delle firme chimiche nei sedimenti, il team di ricerca ha decifrato il contributo del rilascio di carbonio dovuto all'erosione costiera rispetto a quello veicolato dai fiumi in seguito alla destabilizzazione del permafrost artico. I risultati ottenuti mostrano come alcune aree, come le Svalbard, stiano sperimentando un processo di “greening”, ovvero uno sviluppo di biomassa vegetale giovane in risposta al ritiro di neve e ghiacciai. Questo fenomeno rappresenta potenzialmente un feedback negativo al cambiamento climatico, in quanto la nuova biomassa è in grado di sequestrare CO2 atmosferica. Al contrario, altre zone come la Siberia e l'Alaska stanno rilasciando materiale organico antico di migliaia di anni, precedentemente congelato nel permafrost. Questo, invece, costituisce un feedback positivo, poiché tale materiale, una volta immesso nel ciclo del carbonio, può essere facilmente convertito in gas serra quali anidride carbonica e metano.

 

Fusione della criosfera e risposta degli ecosistemi

Se l’aumento delle temperature in Artico favorisca la cattura di CO2 o il suo rilascio in atmosfera, e quindi inneschi un feedback negativo o positivo, dipende da come fattori climatici e ambientali influenzano i processi biologici della fotosintesi e della respirazione cellulare. Questo è l’obiettivo della Linea di Ricerca III. È noto che l’intensità della radiazione solare e la temperatura sono i principali “driver” rispettivamente della fotosintesi e della respirazione, ma non è certo quale dei due fenomeni sarà prevalente, e quale sia il ruolo giocato da altri fattori e dalla loro variabilità spaziale e temporale. La vegetazione della tundra ha una stagione vegetativa molto breve ma intensa: in poche settimane, deve compiere tutto il ciclo vitale di accrescimento, fioritura, impollinazione e spargimento dei semi, oppure espandersi per gemmazione.

 

la fotoSe l’aumento delle temperature in Artico favorisca la cattura di CO2 o il suo rilascio in atmosfera, e quindi inneschi un feedback negativo o positivo, dipende da come fattori climatici e ambientali influenzano i processi biologici della fotosintesi e della respirazione cellulare

 

L’accrescimento estivo deve quindi essere rapido e approfittare di una finestra temporale limitata, in cui il suolo è libero dalla neve, la radiazione è relativamente intensa e le temperature sono sopra lo zero. La tundra ospita una discreta varietà di piante sia vascolari che non, compresi muschi e licheni, che si associano anche a formare estesi reti di “biocroste”, anche queste fotosinteticamente attive. La varietà nella distribuzione di queste specie dipende da vari fattori geomorfologici, tra cui anche l’età di formazione del suolo, correlata all’età della deglaciazione, che può andare da alcuni millenni fino a pochi decenni o addirittura anni nelle aree vicino ai ghiacciai che si stanno ritirando. La vegetazione e i microrganismi nel suolo, inoltre, respirano, degradando e consumando sostanza organica. Specie diverse presentano attività biologica di diversa intensità e mostrano una diversa distribuzione spaziale della copertura vegetale, che a sua volta influenza l’umidità e la temperatura del suolo. Per comprendere la variabilità spaziale e temporale dei flussi di CO2, è necessario quindi condurre misure puntuali di respirazione e capacità fotosintetica (detta “produttività primaria”) su aree spazialmente estese e per lunghi periodi di tempo. Questo è possibile utilizzando un “Infrared Gas Analyser”, cioè un analizzatore portatile della concentrazione di CO2, che, associato a una “camera di accumulo” che si posiziona sul suolo, permette di misurare lo scambio di CO2 tra suolo, vegetazione e atmosfera. Vengono condotte campagne di misura della produttività primaria e della respirazione dell’ecosistema a scala puntuale ogni estate, che hanno fornito una grande quantità di dati.

Da questi, è stato possibile ricavare dei modelli matematici che forniscono indicazioni quantitative sul peso dei vari fattori nel determinare la quantità di CO2 assorbita tramite la fotosintesi o rilasciata dalla tundra tramite la respirazione cellulare. I modelli empirici, che ricavati usando tecniche statistiche, hanno rivelato che i fattori più importanti (oltre alla radiazione solare e alla temperatura) sono il grado di copertura della vegetazione (“Green fractional cover”) e il tempo trascorso dalla fusione della neve. Entrambi questi fattori sono degli indici dello stato di accrescimento della vegetazione (o “fenologia”) e indicano quindi la dipendenza stagionale della fotosintesi e della respirazione. Altri fattori come l’umidità e la temperatura del suolo giocano un ruolo rilevante nella variabilità spaziale, che diventa meno importante quando si analizzano lunghe serie stagionali. La quantificazione accurata e ad alta risoluzione degli scambi di CO2 tra la tundra e l’atmosfera permette di raffinare i modelli climatici a più larga scala, per predire se l’innalzamento delle temperature artiche in atto porterà la tundra a trasformarsi definitivamente in una sorgente netta di CO2, non agendo più da “carbon sink”. Il suolo artico ha finora mitigato l’innalzamento della concentrazione di CO2 in atmosfera, e quindi ha contribuito a rallentare gli effetti del cambiamento climatico. È importante sapere se e come questo fenomeno cambierà: se la tundra artica si trasformerà in una sorgente netta di CO2, contribuendo ulteriormente al riscaldamento del Pianeta.

Il centro “Aldo Pontremoli”, nei suoi oltre 5 anni di attività, come si è letto, ha esaminato e quantificato i diversi feedback al clima e all’ambiente derivanti dalla destabilizzazione termica della criosfera terrestre artica, in particolare del permafrost, contribuendo alla riduzione delle incertezze legate al potenziale impatto da parte dei suoli artici in uno scenario di riscaldamento globale. Ha inoltre permesso maggiore accesso alle regioni artiche oggetto dello studio ed ha predisposto infrastrutture permanenti, alcune uniche nel suo genere, per monitorare e quantificare nel lungo periodo gli effetti del cambiamento climatico nel suo principale “hot spot”.

 

 

Hanno contribuito: Stefano Decesari (ISAC-CNR), Umberto Rizza (ISAC-CNR), Antonio Donateo (ISAC-CNR), Andrea Spolaor (ISP-CNR),  Federico Scoto (ISP-CNR), Gianmarco Ingrosso (IRET-CNR), Mathia Sabino (ISP-CNR) Antonello Provenzale (IGG-CNR),  Mariasilvia Giamberini (IGG-CNR), Francesca Avogadro di Valdengo (IGG-CNR).