L’America di Trump 2 di Marta Dassu'
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Scenari

L’America di Trump 2 

di Marta Dassu'

Il ritorno del tycoon alla Casa Bianca segna una svolta per gli Stati Uniti: deregulation interna, protezionismo e una visione "America-first" che rilancia le fonti fossili e sfida l'ordine globale. Tra alleanze instabili e tensioni con l'Europa, si delineano nuovi equilibri geopolitici

10 min

L’

elezione di Donald Trump conferma la regola aurea dell’anno elettorale: è vita difficile per gli incumbent. La gente vuole cambiare. Tanto più negli Stati Uniti, dove l’aumento del costo della vita ha giocato a favore dello sfidante e dove chi vince “prende tutto”. Il mandato ricevuto da Donald Trump – con la vittoria del voto popolare e il controllo dei due rami del Congresso – è in effetti più solido di quello del 2016. Poi si vedrà, già alle elezioni di mid-term del 2026, quanto la sua Presidenza riuscirà a soddisfare le attese. 

 

 

La coalizione al potere 

La coalizione di Trump si basa su un’alleanza inedita, o forse un matrimonio di convenienza, fra nuovo capitalismo tecnologico e politica, di cui è simbolo il ruolo di Elon Musk. Non è chiaro quanto reggerà questo connubio. Si aggiungono un pezzo di Silicon Valley (che era stata molto più prudente nel 2016), una parte della finanza (attirata dal taglio delle tasse), il tradizionale establishment dell’oil and shale gas, che domina le cariche sulla energia, e una parte della vecchia manifattura che spera nella re-industrializzazione con dazi invece che sussidi.  

 

 

la fotoLA COALIZIONE a sostegno di Trump si basa su un’alleanza inedita fra politica e nuovo capitalismo tecnologico, di cui è simbolo Elon Musk. Si aggiungono un pezzo di Silicon Valley, una parte della finanza (attirata dal taglio delle tasse), il tradizionale establishment dell’oil and shale gas e una parte della vecchia manifattura che spera nella re-industrializzazione con dazi invece che sussidi

 

 

Alla base, Trump è riuscito invece a conquistare la working class disagiata non solo bianca, ha fatto breccia anche fra le minoranze, ispaniche in particolare. È una coalizione trasversale e orizzontale. Il livello di istruzione è il nuovo, vero, “divide” politico. E finisce la tesi secondo cui i democratici avrebbero una maggioranza demografica necessaria.  

Non cambia solo il potere, cambierà il suo esercizio

L’intenzione esplicita di Trump è di espandere la presidenza, con le sue prerogative, riducendo in modo drastico il peso del governo federale (anche attraverso i tagli affidati al DOGE, il nuovo Dipartimento sull’efficienza del governo guidato da Elon Musk e Vivek Ramaswamy). Avremo quindi, almeno nelle intenzioni di partenza, una iper-presidenza forte, un potere legislativo debole e grande autonomia agli Stati. Non è lo “small government” di tipo reaganiano. Siamo di fronte a una visione quasi confederale, ma corretta dall’aumento del peso della Presidenza. Mentre si profila uno scontro voluto con il deep State, in particolare nel Pentagono, nella National Intelligence e nel dipartimento della Giustizia.  

 

La domanda vera è fino a che punto le istituzioni (il Senato che vuole mantenere la sua prerogativa di esaminare le nomine; la FED, dove Jay Powell resterà in carica fino al maggio del 2026) eserciteranno un ruolo di bilanciamento. Insieme a quella parte del mondo economico che teme un eccesso di chiusura commerciale dell’America. In ogni caso, è prevedibile un forte grado di fibrillazione interna. L’America sarà ancora divisa.  

 

 

Dall’Impero alla Repubblica   

Passiamo al quadro internazionale. Trump appare in fondo un sintomo, più che la causa, di un cambio di paradigma. È vero che il commercio internazionale ha tenuto nei numeri, grazie anche al ruolo degli Stati definiti connettori (Vietnam, Messico); ma dazi e tariffe sono in aumento da anni.  L’America di Trump rende più netta questa traiettoria, che si collega – in campo geopolitico – alla competizione fra Cina e Stati Uniti, giocata anzitutto sul predominio tecnologico. 

 

 

la fotoAlla base, Trump è riuscito a conquistare la working class disagiata non solo bianca, ha fatto breccia anche fra le minoranze, ispaniche in particolare

 

 

Il nuovo presidente americano rigetta in modo esplicito gli oneri del vecchio ordine liberale – in un certo senso, l’Impero torna ad essere Repubblica. E annuncia una raffica di tariffe, contro la Cina in particolare ma sulle importazioni più in generale.  Vedremo alla prova dei fatti come e quanto verranno applicate; ma questo approccio avrà comunque delle conseguenze per l’Europa, che è molto più dipendente di quanto non siano gli Stati Uniti dal commercio globale. E che rischia di essere, di fronte alla sfida tecnologica attraverso il Pacifico, un potenziale perdente. 

 

In politica estera, l’idea di Trump è che l’America sia in grado di esercitare un potere dominante attraverso la propria forza comparativa, in campo energetico, militare e tecnologico. L’America non avrà bisogno di esercitare direttamente la forza, con interventi militari all’estero; la farà pesare (secondo la teoria della “pace attraverso la forza”). E lo farà anche minacciando di “togliersi” dagli accordi internazionali (uscita certa dagli Accordi di Parigi sul clima, crisi del WTO): l’America diventa, se vogliamo usare questa espressione, una grande potenza intermittente.  

 

È una linea nazionalista dura, più che isolazionista. Tiene conto dei limiti delle risorse americane, scegliendo delle priorità: il contenimento della Cina anzitutto, cosa che implica anche il tentativo di staccare Mosca da Pechino. Se la linea di Joe Biden era di indebolire la Russia dissanguandola, e se la sua chiave di lettura del mondo era lo scontro fra democrazie/autocrazie, Trump tenterà invece di rompere il rapporto fra autocrazie, chiudendo la partita ucraina. E tenterà di regolare, con Israele e i paesi del Golfo, i conti con l’Iran. Per poi concentrarsi sul fronte indo-pacifico.  

Le nomine di Marco Rubio a Segretario di Stato e di Mike Waltz come National Security Advisor confermano questa impostazione, che fra l’altro significa una relativa perdita di centralità dell’Europa. Che si combina alla pressione americana – di lunga data ma che verrà rafforzata da Trump - per una NATO molto più affidata alla spesa militare europea. Una NATO 3.0, con meno America. 

 

 

la fotoQuella di Trump è una coalizione trasversale e orizzontale. Il livello di istruzione è il nuovo, vero, “divide” politico. E finisce la tesi secondo cui i democratici avrebbero una maggioranza demografica necessaria

 

 

Come tattica, la Casa Bianca farà pesare il fattore imprevedibilità – che spaventa alleati e rivali. Ma non è detto che funzionerà. In sintesi, si profila con Trump 2 una diversa configurazione degli equilibri politici: sulla base di una forte deregulation interna (cosa che potrà avere dei vantaggi per l’economia americana) e di aumento del protezionismo all’esterno (cosa che invece finirà per provocare problemi, fra cui un possibile effetto inflattivo).  

Nella visione “America-first” rientra anche la “energy dominance”. Trump ha nominato Chris Wright a segretario dell’energia e Doug Burgum (figura forse più influente) a guida del Consiglio energia, nel nome di un rilancio delle fonti fossili. L’idea è di puntare in modo deciso ad un aumento della produzione di petrolio e a nuove licenze di LNG. Gli impatti – su prezzi e mercati energetici – saranno rilevanti.   

 

Difficile dire, tuttavia, quanto ciò peserà sul settore americano delle rinnovabili. Secondo una scuola di pensiero, è difficile che Trump revochi i sussidi per investimenti infrastrutturali (previsti dall’Inflation Reduction Act) che sono andati a beneficio di Stati rossi come il Texas.  

 

 

L’Europa potenziale perdente 

Tariffe, gestione del fattore Cina, divergenza regolatoria e costi dell’energia tenderanno a complicare i rapporti fra Europa e Stati Uniti. E renderanno più difficile il catching up tecnologico dell’Europa. Trump, naturalmente, non è la ragione del ritardo accumulato dall’UE: lo rende solo più esplicito. Si confrontano due tesi: secondo la prima, l’effetto Trump sarà di spingere gli europei ad unirsi, per affrontare una trattativa commerciale complicata (meglio trattare che rispondere con una guerra commerciale è il mantra che si sente a Bruxelles) e per aumentare il peso europeo nella NATO. Ma c’è anche una tesi diversa, secondo cui gli europei tenderanno invece a dividersi, ricercando con Washington rapporti bilaterali preferenziali e non riuscendo, nel loro insieme, a esercitare un vero peso.

 

L’Italia ha dalla sua la carta della affinità politica – e della stabilità interna; ha però il problema di una spesa militare insufficiente (1,5 percento del PIL) e di un surplus commerciale importante verso l’America (40 miliardi di dollari circa). C’è poi chi sostiene che la crisi interna a Francia e Germania indebolisca anche la Commissione; e chi invece pensa che la nuova Commissione abbia proprio per questo maggiore spazio di azione. L’unica certezza, purtroppo, che l’Europa arriva impreparata a un appuntamento invece prevedibile: l’epilogo della vecchia era transatlantica e l’inizio di un gioco internazionale più duro, in cui commercio e sicurezza si combinano. Un gioco da carnivori, per un’Europa ancora troppo erbivora.