L’equilibrio [precario] dei produttoridi Robin Mills
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Le tensioni sul petrolio

L’equilibrio [precario] dei produttori

di Robin Mills

I prezzi di Oil&gas sono stabili su valori alti ma non eccessivi. Le economie dei Paesi Opec crescono più della media mondiale, ma all’orizzonte si intravedono nuovi rischi interni ed esterni all’organizzazione

16 min

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opo otto anni turbolenti, i paesi dell’Opec sembrano ritrovar sollievo. I prezzi del petrolio, abbastanza alti ma non eccessivi, sono relativamente stabili da dicembre e sta all’Opec decidere se e quando adeguare la produzione. Ma sotto la superficie, ecco i problemi: il crescente divario in seno all’organizzazione, le tensioni latenti nell’alleanza Opec+ e le minacce geopolitiche.
 

Nonostante la revoca della politica zero-Covid della Cina, le sanzioni e i divieti sul petrolio russo e un sentiment in una certa misura migliore sull’economia mondiale, i prezzi del petrolio non hanno ritrovato i valori massimi e quasi da record dello scorso anno (prossimi ai 130 dollari al barile in marzo e giugno). Molti analisti insistono nel prevedere, entro fine anno, un aumento del Brent Crude, il principale benchmark internazionale, dagli attuali 85 dollari (circa) al barile a più di 100 dollari al barile.

 

Economia in crescita

Le prospettive economiche per i tredici paesi dell’Opec sono piuttosto buone, quest’anno: la crescita prevista dall’International Monetary Fund (IMF) si attesta a un valore medio non ponderato del 4,2 percento, di molto superiore alla media mondiale del 2,7 percento. Tuttavia, la maggioranza dei paesi dell’Opec trova un freno nella scarsa espansione prevista per i loro settori petroliferi per effetto del perdurare del vincolo delle quote o dell’inadeguatezza della capacità produttiva. L’Opec ha ripetutamente lamentato il problema del sottoinvestimento nel settore energetico, ma tra i maggiori colpevoli vi sono proprio alcuni dei suoi membri, che pur dispongono di un’ampia base di risorse e hanno costi di produzione bassi.

 

la fotoA ottobre 2022 l’Opec+ ha annunciato un taglio a sorpresa alla produzione pari a 2 milioni di barili al giorno

 

Dopo aver gradualmente aumentato i propri obiettivi di produzione nel corso della ripresa post-pandemia, cioè nel corso del 2021 e nella prima metà del 2022, nell'ottobre 2022 il fronte Opec ha annunciato a sorpresa un taglio sostanziale della produzione di 2 milioni di barili al giorno (bpd), taglio cui i dieci paesi dell’Opec vincolati dalle quote dovrebbero contribuire con una riduzione di 1,27 milioni bpd. Nell’aprile 2023 l'Arabia Saudita e diversi altri membri dell’Organizzazione hanno proceduto a ulteriori tagli volontari, per un totale nominale di 1 milione bpd che va ad aggiungersi alla riduzione di 0,5 milioni bpd già annunciata dalla Russia. Gli obiettivi di produzione rimarranno probabilmente fermi fino a quando, e a meno che, i prezzi non aumentino in modo importante.
 

Secondo l’International Energy Agency (Iea), nel 2023 il Call on Opec (la quantità di petrolio necessaria per bilanciare il mercato) si attesterà a una media di 29,89 milioni bpd e nel quarto trimestre raggiungerà i 31,2 milioni bpd. Le stime dell’Opec sono invece inferiori: 29,42 milioni bpd su base annua e 30,43 milioni bpd nel quarto trimestre. Reuters stima la produzione dell’Opec nel febbraio 2023 in 28,97 milioni bpd, e riporta che i 10 membri dell’Opec cui era stato chiesto di ridurre la produzione sono rimasti di 0,88 milioni bpd al di sotto dell’obiettivo.
 

 

Il crescente divario in seno all’Organizzazione

In seno all’Opec si osserva un divario tra Paesi capaci di aumenti importanti della produzione (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e, in una certa misura, Iraq), e Paesi che, invece, devono lottare già solo per mantenere il livello di produzione attuale: è l’eredità di anni di sottoinvestimento, soprattutto per Angola e Algeria, e, in alcuni casi, è l’eredità di problemi politici e di sicurezza, in particolare per Libia, Venezuela, Iran e Nigeria. In Kuwait è la politica interna a impedire investimenti adeguati nell’industria a monte, con conseguente e graduale calo della produttività; in Iran e Venezuela la produzione ha visto una lieve ripresa con l’allentarsi dell’applicazione delle sanzioni da parte degli Stati Uniti, mentre in Nigeria il neoeletto presidente Bola Tinubu e la recente approvazione del Petroleum Industry Act potrebbero contribuire a rivitalizzare l’industria a monte.

 

la fotoÈ del 2 aprile l’annuncio di una nuova riduzione di 1 milione di barili al giorno per tutto il 2023

 

Anche all’interno del gruppo principale, la società statale Saudi Aramco si sta cautamente adoperando per portare la propria capacità da 12 a 13 milioni bpd entro il 2027, ma senza fretta di andare oltre, mentre l’Iraq mira ad ampliare la propria attuale capacità, pari a circa 4,8 milioni bpd, fino a raggiungere i 7 milioni bpd, sempre entro il 2027: si tratta di un aumento fattibile per le risorse del sottosuolo iracheno, ma è di fatto reso quasi impossibile dalle condizioni d’investimento, sfavorevoli, oltre che dall’abbandono del paese da parte di diverse importanti compagnie petrolifere e dal conseguente e crescente predominio delle società cinesi, dalla lentezza delle trattative su nuovi progetti critici con la francese TotalEnergies, e, infine, dal ritardo delle infrastrutture per l’esportazione di petrolio, il trattamento del gas, l’iniezione di acqua e la produzione di energia. La regione semi-autonoma del Kurdistan, che contribuisce alla produzione totale dell’Iraq con circa 0,4 milioni bpd, è impegnata ad affrontare le proprie sfide interne, tra spaccature politiche, scontri costituzionali con il governo federale di Baghdad e un arbitrato che minaccia l’uso dell’oleodotto per l’esportazione del petrolio attraverso la Turchia.

 

Le economie dei Paesi dell’Opec, dopo il crollo registrato a causa della pandemia, hanno ripreso a crescere a una media superiore a quella mondiale

 

Diversamente, gli Emirati Arabi Uniti sono sempre più impazienti di dispiegare le proprie nuove risorse: la capacità attuale è di 4,2 milioni bpd e procede verso i 5 milioni bpd previsti entro il 2027 e forse, sul lungo termine, si spingerà fino a 6 milioni bpd, contro una produzione consentita di soli 3,019 milioni bpd. Tale situazione ha suscitato voci secondo cui gli Emirati Arabi Uniti, come riferito di recente dal Wall Street Journal, potrebbero considerare di uscire dall’Opec, come già nel gennaio 2019 fece il Qatar, loro vicino. Quest’ipotesi al momento appare poco plausibile, ma è comunque un punto di negoziazione, dato che nel 2021 gli Emirati premevano per aumentare la produzione di base (quella su cui si calcolano i tagli) da 3,168 a 3,5 milioni di barili al giorno.
 

 

Le tensioni latenti all’interno dell’Opec+

Le tensioni all’interno dell’Opec+ riguardano la posizione della Russia. Con il crollo dei prezzi a fine 2014, l’Opec (Arabia Saudita in particolare), ha compreso di non poter combattere sia contro i trivellatori di shale degli Stati Uniti sia contro Mosca. L’ingresso nell’alleanza della Russia e di altri importanti produttori non-Opec tra cui Oman, Kazakistan e Azerbaigian, nel 2016, è stato un grandissimo risultato della diplomazia energetica. Dopo la breve interruzione avutasi nel marzo 2020 per il crollo della domanda indotto dalle misure di lockdown per la pandemia, l’alleanza Opec+ ha avuto un ruolo determinante nel far risalire i prezzi ricorrendo a significativi tagli alla produzione. I paesi Opec del Golfo apprezzano l’allineamento con la Russia: una gestione attiva del mercato petrolifero può essere necessaria in qualsiasi momento, la Russia è un attore importante in altri casi spinosi quali quelli di Siria, Iran e Libia, e l’alleanza con un paese in grado di fare da contrappeso agli Stati Uniti, percepiti come inaffidabili, è vista con favore.

 

la fotoIl greggio russo viene venduto all’Asia con sconti sostanziali e con costi di spedizione elevati

 

Ma il 24 febbraio 2022 l’invasione russa dell’Ucraina ha sconvolto il mondo dell’energia. Alle auto-sanzioni degli acquirenti europei ha fatto seguito il divieto assoluto di importare in Europa e Stati Uniti la maggioranza del petrolio e dei prodotti raffinati russi. Le spedizioni verso altre destinazioni non sono coperte né assicurate dal G7, salvo in caso di vendita al di sotto dei massimali di prezzo: 60 dollari al barile per il greggio, 100 dollari al barile per i prodotti raffinati ad alto valore quali il diesel, 45 dollari per l’olio combustibile pesante e per altri prodotti a basso valore.

Della conquista delle quote del mercato europeo hanno beneficiato l’Arabia Saudita, in particolare, e anche l’Iraq, ma in generale i produttori Opec del Golfo hanno dovuto affrontare una maggior concorrenza nei loro principali mercati di crescita, cioè l’India, che prima della guerra importava a stento qualche goccia di petrolio russo, e la Cina. I produttori Opecdel Golfo, come anche i loro tradizionali clienti asiatici, si trovano ora di fronte a un dilemma: questa situazione è uno shock temporaneo o diventerà uno stato di cose permanente? Quando le raffinerie potranno procedere a un upgrade infrastrutturale per gestire maggiori quantità di greggio russo, e dove i produttori Opec del Golfo dovranno farsi più aggressivi per poter salvaguardare la propria posizione?

Il greggio russo viene venduto all’Asia con sconti sostanziali e, date le distanze, con costi di spedizione elevati, ma i volumi delle esportazioni sono rimasti massicci e quindi, dopo i picchi iniziali, i prezzi si sono moderati. Per citare un esempio, gli Emirati Arabi Uniti hanno tratto vantaggio dall’importare greggio russo per la raffinazione (presumibilmente a prezzo scontato), e poter così liberare produzione per l’esportazione, e hanno tratto vantaggio anche dallo stoccaggio e miscelazione di petrolio di origine russa presso l’hub di Fujairah; nel frattempo, diverse società commerciali, tra cui nuove arrivate e anche società russe ribattezzate, si sono stabilite a Dubai.

 

la fotoI paesi Opec del Golfo apprezzano l’allineamento con la Russia

 

Nel febbraio 2023 il vice primo ministro russo e responsabile per l'Energia, Alexander Novak, annunciava che a partire da marzo la Russia avrebbe tagliato la produzione di 500mila bpd. In un certo senso, questa riduzione è stata ben accolta dai colleghi dell'Opec, che in aprile hanno ricambiato attuando anch’essi dei tagli. Ma se più avanti, nel corso dell'anno, i mercati dovessero contrarsi in parallelo alla continua ripresa della domanda cinese nell’era post Covid, l'Arabia Saudita potrebbe ritenere giustificato un aumento della produzione, e allora dovrebbe fare i conti con il veto di Novak, il che porterebbe allo scoperto le tensioni latenti.
 

Se i prezzi del petrolio dovessero salire bruscamente (a causa della Russia, della ripresa cinese o di altri fattori), gli Stati Uniti probabilmente riprenderebbero a far pressione. Nel luglio 2022 il presidente Joe Biden si è recato in visita in Arabia Saudita con la proposta di un minimo aumento della produzione, poi prontamente revocata tra furiose accuse da parte di Washington e minacce (da parte del Congresso più che di Biden) di azioni contro Riyadh quali la ripresa del Nopec, l’annoso disegno di legge anticartello degli Stati Uniti. Alla fine, i prezzi sono scesi per effetto dell’indebolimento dell’economia mondiale, l’Opec è stata in qualche modo assolta, e nelle elezioni di medio termine i democratici sono andati meglio del previsto. Non è tuttavia difficile immaginare un ritorno degli stessi dissapori nel corso di quest’anno.

 

Le minacce geopolitiche

Le minacce geopolitiche sono emerse chiaramente nel settembre 2019, con gli attacchi sferrati da droni e missili, probabilmente iraniani, contro le installazioni petrolifere saudite, che hanno provocato una temporanea perdita di produzione di 5,7 milioni bpd. Ma per una volta almeno, il conflitto in Medio Oriente è stato oscurato, prima dalla pandemia e poi l’invasione dell’Ucraina. I blocchi Emirati Arabi Uniti-Arabia Saudita e Turchia-Qatar hanno raggiunto la distensione, e finora la regione è riuscita a evitare le conseguenze della crescente tensione tra Cina e Stati Uniti.
 

Nel frattempo, l’Iran continua ad aumentare il livello di arricchimento dell’uranio, e a un certo punto dovrà decidere se intraprendere passi ancor più minacciosi. L’accordo sul nucleare con gli Stati Uniti è moribondo, soprattutto a seguito della brutale repressione delle proteste diffuse iniziate nel settembre 2022, che continuano tutt’ora, pur se a livelli inferiori, e a seguito della più stretta cooperazione militare di Teheran con Mosca. Il nuovo governo israeliano, di estrema destra, fa sempre più minacciosa la propria retorica, e mentre combatte l’opposizione interna e intensifica la repressione contro i palestinesi, potrebbe anche farsi tentare da un diversivo.

 

Le sfide energetiche mondiali a più lungo termine sono passate in secondo piano. La minaccia del picco della domanda di petrolio (l’inesorabile calo del consumo di petrolio dovuto all’adozione dei veicoli elettrici e di altre tecnologie non petrolifere, i prezzi del carbonio e gli altri incentivi contro l’uso del petrolio), si è allontanata di qualche anno. I paesi dell’Opec hanno accolto con entusiasmo la rinnovata consapevolezza mondiale del loro ruolo di fornitori chiave per la sicurezza energetica.

 

Nonostante lo stop della Cina alla politica zero-Covid, le sanzioni e i divieti sul petrolio russo, i prezzi non hanno ritrovato i valori quasi da record dello scorso anno


In particolare, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti (che a novembre ospiteranno la Cop28) sottolineano la necessità che quella energetica sia una transizione e non una rivoluzione, e promuovo utilizzi non emissivi per gli idrocarburi e i prodotti petrolchimici, promuovono l’idrogeno blu e la cattura e stoccaggio del carbonio. Ritengono che la loro base a basso costo, la bassa intensità di carbonio della loro produzione e le enormi riserve di cui dispongono li collochino in una posizione di forza. Con la Russia ostacolata dalle sanzioni e con gli Stati Uniti e varie società petrolifere occidentali che preferiscono restituire il denaro agli azionisti e perseguire la decarbonizzazione anziché darsi a nuovi grandi investimenti, la previsione dell’Opec in generale (e i suoi principali membri in particolare) è di poter conquistare nuove quote di mercato anche in caso di calo della domanda complessiva.


Le più solide tra le economie dell’Opec pianificano il futuro espandendosi dal petrolio al gas e dal gas alle energie rinnovabili, all’idrogeno e, in alcuni casi, fino all’energia nucleare. I prezzi alti consentono alle economie più deboli una tregua che tuttavia, per la maggior parte, questi paesi sprecheranno, come già in passato.